sabato 29 settembre 2012

UN TUFFO AL CUORE: IN MEMORIA DI SERGIO L'AFRICANO

di Francesco Manetti


Il "torracchione" di Agadès, la terrazza e la "misteriosa antenna"

L'Almanacco dell'Avventura 2013 (del quale parla approfonditamente Giampiero Belardinelli in un post dedicato) è un affettuoso omaggio a Sergio Bonelli, a un anno di distanza temporale dalla sua prematura scomparsa. Il protagonista è di nuovo Mister No, dopo un'assenza che durava dal 1999, ovvero dall'Almanacco dell'Avventura 2000, quando ancora la testata alternava le vicende di Jerry Drake con quelle di Zagor.


Almanacco dell'Avventura 2013, settembre 2012. Il box dove si parla del viaggio di Sergio Bonelli (indicato dalla freccia rossa) ad Agadès, laddove sorge il famoso minareto, dall'editore soprannominato affettuosamente "torracchione". (c) Sergio Bonelli Editore


Seconda di copertina dell'Almanacco dell'avventura 2013. Sergio Bonelli ad Agadès, con il "torracchione", la terrazza e la "misteriosa antenna". (c) Sergio Bonelli Editore, 2012


Alle pagine 212-213 dell'albo si racconta del viaggio di Bonelli - vero giramondo "estremo" oltre che lungimirante editore e geniale sceneggiatore - ad Agadès, la più grande città del nord del Niger, nel Sahara, e della sua spettacolare, caratteristica e suggestiva Grand Mosque color sabbia. E un'artistica foto scattata nel medesimo luogo è stata scelta per la seconda di copertina dello stesso volumetto. Quel soggiorno era servito da spunto per il Mister No n. 181 del gennaio 1991, disegnato da Diso. A quei tempi il pilota amazzonico non era in Brasile, ma si trovava nel vivo della sua lunghissima e pericolosa trasferta africana, che si sarebbe dipanata per trentuno albi mensili, più uno speciale estivo, dal n. 167 dell'aprile 1989 al  n. 196 del settembre 1991.


Dime Press n. 1, maggio 1992. Nel servizio dedicato alle avventure africane di Mister No, ecco la foto con Bonelli (sulla terrazza con la "misteriosa antenna", davanti al minareto), che era servita da modello per Diso al momento della realizzazione dell'albo n. 181 (l'antenna diventa uno dei pali che reggono la tenda del bar). Vediamo come vignetta e scatto si equivalgano, sottolineando l'identificazione tra l'editore-giramondo Bonelli e l'avventuriero-giramondo Jerry Drake!


"Jerry l'africano" era un servizio apparso su Dime Press n. 1 del maggio 1992: come documentazione i redattori del "magazzino bonelliano" avevano utilizzato anche un'intervista allo stesso Nolitta - e come corredo iconografico una foto che l'editore stesso aveva scovato nei suoi album personali. L'anno successivo, dietro richiesta del sottoscritto, Sergio Bonelli inviò un messaggio che accompagnava due belle fotografie, una delle quali inedita, con l'editore avventuriero ancora una volta seduto nei pressi dell'imponente "torracchione". Come si può facilmente notare lo scatto, seppur contemporaneo di quello pubblicato su Dime Press n. 1, ha un'angolazione diversa. Un'altra scelta di inquadratura (dello stesso periodo) è stata inserita come seconda di copertina dell'Almanacco 2013; infine, un punto di vista del minareto molto differente (lontano dalla terrazza e dalla "misteriosa antenna") è quello mostrato nelle pagine interne dell'albo.


Sergio Bonelli ad Agadès, sulla terrazza nei pressi del minareto. L'angolazione dell'inquadratura è diversa dalle foto pubblicate su Dime Press e sull'Almanacco 2013. Si vedono bene i volatili che appaiono anche nei disegni di Diso e... la "misteriosa antenna" della quale parla Bonelli nel messaggio!



Ecco il testo integrale del messaggio di Sergio Bonelli: "Milano 24 settembre 93 - Caro Francesco, mi scuso ancora una volta del grave ritardo con cui (ho) risposto alla tua richiesta ma, come ti ho già detto, sono stato vittima di un equivoco. Eccoti dunque un paio di foto - neanche tanto belle, in verità - del famoso "torracchione" di Agadès tanto amato da Mister No e dal sottoscritto. Purtroppo la presenza di una misteriosa antenna rovina non poco il 'colpo d'occhio' ma... pazienza. Ti auguro che, una volta o l'altra, capiti anche a te di trovarti, al tramonto, su quella terrazza. Un cordialissimo saluto. Sergio"


Questa che abbiamo proposto su Dime Web è una breve ma intensa storia per immagini, dove fumetto, viaggi, avventura, emozione, aneddoti, nostalgia e ricordi agrodolci si fondono in un unicum inestricabile. E, una volta o l'altra, speriamo di andarci davvero su quella terrazza di Agadès, al tramonto, come ci augurava Bonelli nel '93...

Francesco Manetti


N.B. Trovate altre notizie sul passato di Dime Web sulle pagine Chi diavolo siamo e Da Collezionare a Dime Press!

venerdì 28 settembre 2012

LA TERRA DEGLI EROI: OLTRE KEN PARKER (I PARTE 1977-1991)

di Giampiero Belardinelli


Ken Parker (il cui primo numero uscì nel giugno 1977, per tipi della Cepim di Sergio Bonelli) è certamente il personaggio più importante creato da Berardi e Milazzo nella loro carriera artistica. Senza ombra di dubbio il personaggio ha segnato una tappa fondamentale nel processo di rinnovamento del fumetto italiano: infatti non ci troviamo dinanzi a un eroe a tutto tondo, ma di fronte a un character pieno di dubbi e incertezze (in questo comunque era stato preceduto da un altro personaggio bonelliano, Mister No, l’antieroe creato da Nolitta); e anche il montaggio delle tavole, dotate di una sceneggiatura prettamente cinematografica e priva di didascalie, si distaccava notevolmente dai modelli utilizzati dagli autori in quel periodo.

 
Copertina di Ken Parker n. 1, giugno 1977. Disegno di Milazzo (c) Berardi & Milazzo, 1977-2012

In questa sede, invece, analizzeremo quei racconti oltre Ken Parker (naturalmente editi dalla Bonelli) che i due autori – in questi lavori all’opera in maniera separata – hanno realizzato prima per la Collana Rodeo (dove appaiono due racconti firmati da Berardi) e in seguito per i personaggi creati da altri (Tex, Nick Raider – il poliziotto newyorkese è l’unico personaggio, tra quelli presi in esame, dove, al di fuori dell’ambito delle storie di Lungo Fucile, ritroviamo la firma di Milazzo – e Il Piccolo Ranger). I racconti verranno commentati in perfetto ordine cronologico (nel primo capitolo le storie scritte da Berardi, nel secondo i lavori disegnati da Milazzo) e non in ordine di popolarità di un personaggio o di una collana.


Una poetica penna nel mondo dell’avventura: le storie scritte da Berardi

Nel giugno del 1977 viene pubblicato il racconto Terra Maledetta, 121° numero della Collana Rodeo, sceneggiato da Giancarlo Berardi (al debutto in casa Bonelli) e disegnato da Antonio Canale. 


Una delle locandine italiane di "Corvo Rosso non avrai il mio scalpo!", 1972

Si nota come la visione del film Corvo Rosso non avrai il mio scalpo (Jeremiah Johnson nella versione originale; pellicola del 1972 diretta da Sydney Pollack) abbia influenzato lo sceneggiatore anche nella costruzione della trama di Terra Maledetta (il film citato, tra l’altro, ha dato lo spunto per la nascita della saga di Lungo Fucile). La storia, ambientata nel 1766, racconta di un lungo viaggio nelle desolate terre del Grande Nord canadese, e vede protagonista Adam Wilson, un esperto minerario proveniente dall’Inghilterra alla ricerca del Fiume Giallo (e del padre), un corso d’acqua leggendario che, come sostengono in molti nella regione, pare sia ricco d’oro, mentre in realtà l’unica ricchezza è costituita da inutile pirite (sottile e beffarda metafora sulla cupidigia umana). Una classica storia d’avventura che offre a Berardi lo spunto per soffermarsi sulla difficile realtà delle terre di frontiere in quel periodo. Vediamo, ad esempio, tutti gli espedienti a cui ricorrono gli uomini della spedizione guidata da Wilson per sopravvivere alla violenza della natura, la quale, pur se dura, si dimostra sempre meno infida della violenza, spesso gratuita, degli uomini. Nel lasso di tempo in cui si dilunga la spedizione, Berardi ci mostra inoltre ritratti di grandissima umanità: il sacrificio di Jacques (uno dei compagni d’avventura di Adam), che permette al Nostro di salvarsi da una situazione senza scampo; l’amore che nasce tra Maruah (un indiana Chippewa) e Mitaua (il nome indiano di Adam Wilson), un uomo privo di pregiudizi razziali (una figura con una concezione della vita simile a quella di Ken Parker). Infine, senza filtri di sorta, l’autore non disdegna di mostrarci situazioni di estrema crudezza, come, ad esempio, nelle sequenze in cui i Chippewa massacrano spietatamente gli Eskimo (loro rivali da sempre), secondo le regole della lotta per la sopravvivenza con cui, da millenni, si confrontano gli uomini e gli animali nelle terre ancora selvagge (non vengono risparmiati né donne né bambini). Inorridito, Wilson si scaglia contro il suo amico Matonabbee (il capo dei Chippewa e fratello dell’indiana amata dal Nostro) chiedendogli spiegazioni: "Forse i bianchi ne hanno di migliori... – risponde l’indiano – Ma allora perché hanno sterminato i Wampanoags e i Narragansets e i Massachussetts!? Il mio popolo uccide solo per mangiare e per difendersi; il tuo uccide spesso per il gusto di farlo!".





La copertina del n. 121 della Collana Rodeo, disegnata da Antonio Canale. Giugno 1977 (c) Sergio Bonelli Editore


 
Pochi mesi dopo, nell’ottobre del 1977, Berardi debutta sulle pagine del Piccolo Ranger (Collana Cow-Boy) con una storia dipanata in tre albi, La vedova nera (n. 167), Infamia! (n. 168) e L’ultimo atto (n. 169). Si tratta indubbiamente uno dei racconti più interessanti della serie (creata da Andrea Lavezzolo nel lontano 1958), in cui l’autore genovese introduce delle gustose novità sul tema di un classico western carcerario. Accompagnato dai non accreditati disegni della Buffolente, Berardi sottolinea la sincera amicizia che Kit Teller nutre verso i pellerossa, defraudati delle loro terre dal governo degli Stati Uniti, aiutandoli disinteressatamente e senza secondi fini, al contrario, come la Storia ci insegna, dei trafficanti bianchi. Berardi tra l’altro, da esperto conoscitore delle regole del giallo, costruisce un racconto dove tutti gli indizi portano verso una plausibile verità, per poi divertirsi a ribaltare il tutto nel finale: le apparenze portavano a escludere che il responsabile delle evasioni dei detenuti (naturalmente forniti di bottino nascosto da poter recuperare) dal Penitenziario di Yuma fosse addirittura il direttore del Carcere Sam Clark. Quest’ultimo, secondo una sensibilità peculiarmente berardiana, viene ritratto anche nei momenti di quotidianità e negli affetti familiari, una caratterizzazione che lo umanizza e lo allontana dal ruolo di cattivo arido e spietato. Inoltre il camuffamento dell’identità, come vedremo anche nel magistrale capolavoro kenparkeriano Diritto e rovescio (n. 36), rende unico questo episodio del Piccolo Ranger, in cui alcuni personaggi, per varie motivazioni, ricorrono a una girandola di travestimenti che danno al racconto – come puntualizza Gianni Brunoro – "sorprendenti e godibili variazioni sul tema" (cfr. il volumetto allegato allo Speciale Il Piccolo Ranger pubblicato nel 1992).



Copertina del Piccolo Ranger n. 167, disegno di Corteggi, ottobre 1977 (c) Sergio Bonelli Editore



Tra l’altro, ponendo l’attenzione sulla vita all’interno del Penitenziario, dove Kit si è fatto rinchiudere per scoprire chi favorisce le evasioni, Berardi sottolinea la durezza dei secondini, le meschinità a cui ricorrono per taglieggiare i detenuti, la violenza che questi ultimi subiscono e al tempo stesso riversano nei confronti dei più deboli. Tra tutto ciò, poi, l’autore non dimentica di inserire momenti intimisti, come ad esempio l’addio di Claretta a Kit: "Devi cercare di dimenticarmi e trovare un bravo ragazzo che..."; "Sta’ zitto! Lo sai benissimo che non potrei mai!" afferma più decisa che mai Claretta; "Devi farlo! Quando uscirò, io sarò un vecchio...", ribadisce infine con commovente decisione Kit. Inoltre, il vincolo di amicizia che lega Frankie Bellevan al Nostro, ancor più rafforzato dalle tristi vicissitudini giudiziarie. E infine la commovente generosità del detenuto Smiley, un uomo migliore dei suoi carcerieri e di alcuni presunti, rispettabili personaggi, come appunto il direttore del Penitenziario. Dopo il racconto del Piccolo Ranger, troviamo un altro episodio scritto da Berardi nel 131° numero della Collana Rodeo, intitolato Wyatt Doyle (aprile 1978), ambientato nel Kansas del 1873. Nel racconto assistiamo alle peripezie di Wyatt Doyle, cacciatore di taglie per necessità (accompagnato nella sua caccia da un giovane che caratterialmente ricorda molto il figlio), a cui il disegnatore Grugef (nome d’arte di Giancarlo Forgiarini, un autore dal tratto indubbiamente insolito rispetto ai tipici canoni bonelliani del periodo) ha dato il volto dell’attore Burt Lancaster. Nel lungo flashback Berardi racconta il dramma del protagonista (un uomo dalla poetica umanità), costretto dalle avverse circostanze a entrare nel circolo vizioso e crudele dell’usura (per mano di questi ha perso il figlio, la moglie e la sua terra). Doyle esce da quella tremenda esperienza con una visione della vita più cinica e disincantata (lo sceneggiatore è bravissimo a sottolinearne lo stato d’animo), ma senza perdere mai quel barlume di umana speranza. Questo racconto della Collana Rodeo, come in molti di quelli kenparkeriani, si svolge in gran parte in un’ambientazione invernale con tanto di maestosi e suggestivi paesaggi coperti di neve, dove, oltre ai pericoli creati dagli uomini, le maggiori difficoltà arrivano dalla furia degli elementi (il pericolo delle valanghe) e dagli animali selvaggi (particolarmente spettacolare e durissima la lotta dei due protagonisti con un Grizzly).


La copertina di Nick Raider n. 18 disegnata da Casertano, novembre 1989 (c) Sergio Bonelli Editore


 
Passano undici anni prima di trovare una nuova collaborazione di Berardi per un’altra testata bonelliana. In questo lasso di tempo, dal 1978 al 1989, molte cose sono cambiate dalle parti di via Buonarroti: la casa editrice ha raccolto i propri marchi sotto il nominativo attuale di SBE; nel frattempo sono stati pubblicati nuovi personaggi che si sono imposti all’attenzione del pubblico (escludiamo quelli che purtroppo, nei primi anni Ottanta, hanno chiuso anzitempo le pubblicazioni), quali Martin Mystère, Dylan Dog e Nick Raider. E proprio per quest’ultimo personaggio l’autore scrive una storia, Mosaico per un delitto (n. 18, novembre 1989), considerata da diversi osservatori tra le migliori della serie ideata da Claudio Nizzi. Il giallo elaborato da Berardi è inappuntabile e, quando si arriva alla fine, niente può dirsi essere stato lasciato al caso. Ma ciò che eleva questo racconto è la straordinaria capacità dell’autore di mostrarci uno spaccato di varia umanità, di conflitti sociali e momenti di ordinaria follia. Una ragazzina di diciassette anni (Elisa) viene trovata morta al Central Park: da lì prendono il via una serie di interrogatori che offrono all’autore l’occasione per mostrarci i differenti punti di vista con cui i conoscenti giudicavano il comportamento della vittima. Chi la definisce una poco di buono, abituata a frequentare delle cattive compagnie; chi ne sottolinea la sua propensione di essere una mangiatrice di uomini ("Insomma... Siamo tra uomini, no?... – afferma il fruttivendolo – Minigonne vertiginose, allusioni maliziose... tutto il repertorio completo!"); chi, come il prete della parrocchia, la definisce una ragazza con dei problemi, ma comunque devota e generosa con i reietti della società. Infine, dopo che le indagini avevano portato in tutt’altra direzione, ecco la sorpresa: la madre adottiva, un’isterica, meschina donna frustrata, ossessionata dalla bellezza in fiore della figlia (convinta che le rubasse il suo nuovo e giovane compagno), è l’insospettabile colpevole dell’omicidio. Nel finale scopriamo come la vittima sia in realtà illibata e il racconto chiude il sipario con una beffarda e impietosa metafora sulle fobie sessuali che ancora oggi affliggono ancora le società evolute economicamente. Per Berardi, insomma, la trama è anche un’occasione per affondare il bisturi nella realtà quotidiana. In questo caso, ci porta alla nostra attenzione la squallida mentalità di certa gente, disposta a prestare fede a qualsiasi diceria, alle menzogne più abbiette, pur di dimenticare la propria condizione di inadeguatezza e di insoddisfazione.



La copertina, firmata Galep, di "Oklahoma", il primo Maxi Tex, dicembre 1991 (c) Sergio Bonelli Editore



Siamo nel dicembre del ’91 e in tutte le edicole esce un albo di Tex nel classico formato bonelliano (intitolato Oklahoma!), ma con un maggior numero di pagine, ben 348, un volume insolito, che Tiziano Sclavi ha battezzato con il termine di MiniTexone, scritto non da Nizzi o da Nolitta (allora gli unici sceneggiatori – soprattutto Nizzi – a essere impegnati con il personaggio di Gianluigi Bonelli) ma bensì da Giancarlo Berardi. I disegni sono del veterano Guglielmo Letteri. Con il suo segno morbido, classico, introspettivo, si rivela adattissimo a valorizzare la narrazione corale, distesa, intimista di Berardi, segnalandosi in pratica come l’ideale trait d’union tra le innovazioni berardiane e l’immagine grintosa e dinamica del personaggio datagli da Gianluigi Bonelli. Un impegno da far tremare i polsi quello di sceneggiare una storia di Tex, che però Berardi assolve con puntualità, accostandosi al personaggio di Bonelli padre con l’umiltà di chi sa di affrontare un mito storico del fumetto italiano. Il modo di narrare di Berardi è in effetti lontanissimo da quello di Gianluigi Bonelli, ma comunque le due differenti correnti di pensiero non sono certo inconciliabili, a dimostrazione che i preconcetti a priori (non solo nel mondo della fiction) non dovrebbero più esistere. L’autore, secondo me, è riuscito in un compito che molti ritenevano davvero impossibile.


1889: una rara e storica fotografia della Oklahoma Land Rush.



La sceneggiatura costruita dall’autore genovese è basata su un fatto storico, la Oklahoma Land Rush, ovvero una lunga corsa, effettuata con carri o qualsiasi altro mezzo, che i coloni arrivati nell’ex territorio indiano intrapresero per appropriarsi i migliori lotti di terreno fertile dove poter iniziare una nuova esistenza. L’autore in questo tipo di contesto dà il meglio di sé, mostrandoci le vicissitudini dei Paxton e di molte altre famiglie in competizione tra di loro, in una disperata lotta tra poveri. Berardi ritrae i personaggi in tutte le sfaccettature caratteriali: le debolezze, le piccole manie, i sentimenti. Ad esempio vediamo il nascere della simpatia amorosa tra la figlia dei Paxton e un mezzosangue, contrastato, almeno inizialmente, dal fratello della ragazza; poi il successivo affermarsi tra questi ultimi due, lento ma costante, del vincolo dell’amicizia e della solidarietà. Inoltre scorgiamo il dramma dei coloni nel tentativo di cercarsi un posto al sole, il duro impatto con la morte dei propri cari, il crollo delle speranze, ma anche la voglia di non arrendersi, di credere che le illuminate leggi della Costituzione Americana arrivino anche nelle selvagge terre di Frontiera. Ma se la realtà dell’Ovest è spesso legata alla legge del più forte, nella finzione uomini come Tex e Carson non accettano questa realtà, e si battono con durezza per l’affermazione della giustizia, anche andando contro i potenti che hanno costruito le loro ricchezze "sulle lacrime e il sangue della povera gente".


Una delle locandine americane del film "Far and away" ("Cuori ribelli"), 1992. Il finale è ambientato durante l'assegnazione di terre in Oklahoma nel 1889.



È lo spirito di molte delle migliori storie texiane scritte da Gianluigi Bonelli, che Berardi ha dimostrato di aver compreso e utilizzato alla perfezione. L’autore costruisce quindi un racconto nel suo inconfondibile stile narrativo, non dimenticandosi però quegli elementi peculiari delle trame architettate da Bonelli padre. L’interpretazione berardiana di fa di Tex è perfettamente canonica: il personaggio mantiene un eloquio molto vivace, sprezzante con i "criminali in guanti bianchi", mai comunque forzatamente arrogante. Inoltre il personaggio, pur in un contesto corale, resta in fondo il protagonista assoluto, al punto da risultare, come vuole la tradizione, il deus ex machina della situazione: le sue indagini svelano l’intrigo, proteggono i più deboli dall’arroganza dei grandi e piccoli criminali, portando infine la giustizia e la speranza a chi si era affidato alla sua opera e alla sua pistola. Il ruolo che Carson svolge nella storia è quello del gregario ma, pur non emergendo come il personaggio epico interpretato da Gianluigi Bonelli e da Mauro Boselli (cfr., tra gli altri, Il passato di Carson, Tex nn. 407/409), è comunque utilizzato positivamente. Le punzecchiature che si scambiano i due pard, inoltre, sono di una raffinata e garbata ironia decisamente nelle corde dello sceneggiatore: "Restava solo il petrolio, ti pare?", dice Tex a pagina 339; "Elementare, direi!", risponde Carson; "Mi vergogno perfino di averti fatto la domanda!" aggiunge ancora l’anziano pard; "È perché non ci hai riflettuto!" risponde infine Tex. In conclusione, l’opera texiana di Berardi è, a mio parere, un capolavoro assoluto da collocarsi senz’altro accanto alle storie scritte dall’indimenticato Gianluigi Bonelli.


Un pennello al servizio del giallo: i racconti illustrati da Milazzo 



La copertina di Nick Raider n. 22, disegnata da Casertano, marzo 1990 (c) Sergio Bonelli Editore


Dalle distese coperte di neve, caratteristiche della saga di Ken Parker, alle strade intasate di traffico e criminali della Grande Mela, l’ambientazione base di Nick Raider, il passo è lungo, ma Milazzo lo compie con la naturalezza e la disinvoltura che deriva dalla sua notevole esperienza artistica. Il disegnatore collabora appunto a Nick Raider, di cui illustra due episodi, Omicidio al Central Park (n. 5, ottobre 1988) e Jimmy e Juanita (n. 22, marzo 1990), entrambi scritti dal creatore del personaggio Claudio Nizzi. In questi due episodi, l’autore sfoggia una serie di soluzioni grafiche insolite, come, ad esempio, il filo contorto del telefono con cui parlano Nick e il tenente Art, i quali appaiono, malgrado la distanza, l’uno di fronte all’altro (Omicidio al Central Park, p. 54), "come nei film americani – scrive Francesco Manetti – degli anni ’30 e ’40". Nelle sue tavole, realizzate con pennellate molto fluide che delineano immagini volutamente deformi, si scorgono dei volumi dai profili incerti che si confondono nell’oscurità della notte. Gli inseguimenti automobilisti, inoltre, mostrano la tendenza di Milazzo ad accentuare il movimento dei mezzi, con "minuziosi accorgimenti grafici – scrive acutamente ancora Manetti – per i rumori, che vengono tratteggiati curvi, come a seguire la macchina in corsa". Le luci, i grattacieli, i luoghi caratteristici, i quartieri malfamati (popolati da un’umanità sfaccettata e varia: prostitute, piccoli criminali, persone disperatamente sole), vengono esaltati dal potente bianco e nero dell’autore, che, a secondo delle esigenze narrative e ambientali, cambia le gradazioni chiaroscurali con risultati scenografici degni dei migliori noir del cinema hollywoodiano. L’autore, col suo segno rapido ed essenziale, sa delineare sequenze mute talmente comunicative da non aver bisogno di un supporto dialogato. Il segno di Milazzo dona a Nick un aspetto maggiormente umano (che ne ammorbidisce la consueta durezza), ma al tempo stesso ne accentua la già notevole dinamicità. La maschera facciale del Marvin milazziano lo avvicina moltissimo ai personaggi della Rivista o degli spettacoli circensi (il personaggio viene ritratto spesso con espressioni da clown). Con l’approfondimento della ancora acerba personalità di Jimmy, Milazzo può sfogare una delle sue doti migliori: la riconosciuta profondità psicologica che sa donare ai suoi personaggi. Il timidissimo e introverso Jimmy Garnet, nel racconto che porta anche il suo nome, oltre alle sue solite mansioni di archivista del Distretto Centrale, viene mostrato,grazie all’ottima sceneggiatura di Nizzi, insolitamente anche nei momenti di attività sessuale: lo vediamo infatti tra le braccia della bella e sfortunata Juanita, compagna della sua prima volta. Queste sequenze trasmettono, oltre ad un’insistente sensazione di malinconia, una travolgente e sensuale carica erotica; l’autore, tra l’altro, dipingendo scene di sesso, come ha già dimostrato in molte occasioni nel suo Ken Parker, dimostra di non sfigurare affatto con i lavori illustrati dai migliori specialisti del genere erotico.



Berardi & Milazzo con quella sagoma di Ken Parker!

In Jimmy e Juanita, inoltre, emerge prepotentemente la coprotagonista della storia, Juanita, messa in risalto dal pennello di Milazzo sia nelle sue inquietudini (derivate dal dramma della povertà) sia negli aspetti gioiosi e positivi (l’amore sincero che nutre per Jimmy), conferendole lo stesso sapore delle donne perdute splendidamente immortalate, insieme a Berardi, in molte storie di Ken Parker.

Giampiero Belardinelli 

giovedì 27 settembre 2012

PIOVIGGINANDO UCCIDE: UNO SGUARDO ANNEBBIATO AL SECONDO COLOR TEX

di Francesco Manetti


Qualche annetto fa, sul n. 6 del "magazzino bonelliano" Dime Press, apparve un dossier dedicato al Ranger di Gianluigi Bonelli. Moreno Burattini scrisse una ficcante introduzione, “Tre per quindici”, nella quale illustrava le modalità di scelta delle storie più belle di Tex che la redazione aveva deciso di commentare e i motivi che avevano portato lo staff a suddividerle in categorie. 


La copertina di Dime Press n. 6 (febbraio 1994) con il Dossier Tex.


Seguendo la lezione di Rudi Bargioni ed Ercole Lucotti (autori di uno dei primi libri dedicati a Willer, pubblicato addirittura nel 1979, per Gammalibri), e i consigli di Claudio Nizzi, fu deciso di estrapolare cinque canoni texiani: "città violenta", "fuorilegge", "ombre rosse", "ai confini della realtà" e "fuori registro".



Il libro su Tex di Bargioni e Lucotti (Gammalibri, 1979)



Se fosse possibile inserire, come se ci trovassimo di fronte a un ipetertesto continuamente aggiornabile come quelli che appaiono sui blog, in quel dossier del febbraio 1994 “I banditi delle nebbie”, il secondo Color Tex uscito nell'agosto 2012, con testi di Pasquale Ruju e disegni di Ugolino Cossu, in quale categoria rientrerrebbe questa nuova avventura in quadricromia? In quella dei “fuorilegge” di sicuro, in quanto la gang familiare capitanata dal brutale e repellente Uncle Bear tiranneggia per tutta la sequenza di tavole. Ma potrebbe appartenere anche a quella dedicata alle storie ambientate “ai confini della realtà”. I feroci assassini che impazzano sul lago Okanagan, nella British Columbia canadese, sfruttano infatti la nebbia per apparire all'improvvisso a poppa delle imbarcazioni, come fossero spettri o spiriti maligni.



Il lago Okanagan, British Columbia canadese, dove è ambientata la storia del Color Tex 2.



Quando i malcapitati naviganti vedono alle spalle giungere le prime ombre dei pirati sulle gelide acque dello specchio d'acqua incastonato come un gioiello prezioso nel Grande Nord è ormai troppo tardi – e non possono fare altro che recitare le ultime preghiere prima di trovarsi ad ascoltare il tintinnar di chiavi di San Pietro oppure (dipende dalle inclinazioni terreno) a spalar carbone nelle fornaci di Satanasso!


Una delle locandine americane del film "The Fog", 1980



La nebbia omicida immaginata da Ruju, per chi volesse far due passi nel fantastico mediatico, richiama quella di Carpenter nel capolavoro “Fog”, un film del 1980 in cui i fantasmi scatenati dalla bruma sono quelli di Capitan Blake, della sua ciurma e di un gruppo di lebbrosi vittime di un massacro. Di nebbie e di mostri ci parla anche Stephen King in un suo racconto (“La nebbia”, per l'appunto) apparso nella raccolta “Scheletri” del 1985: all'interno di un supermercato alcuni clienti - un campionario di varia umanità - sono costretti a convivere con l'orrore e con la follia, assediati da esseri abominevoli. Frank Darabont ha tratto dal breve scritto del Re un ottimo film, “The Mist”, apparso nelle sale nel 2007. Darabont è un fedele traspositore su pellicola di trame kinghiane: suoi sono anche “Le ali della libertà” del 1994 (tratto da “Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank”) e “Il miglio verde” del 1999 (dall'omonimo libro).


Una delle locandine italiane del film "The Myst", 2007


Tornando al Color Tex, la trama potrebbe anche trovare degna posizione nella categoria “ombre rosse”, dedicata agli Indiani d'America. Sono loro, con la prigioniera e schiava sessuale Imala della tribù Salish, la controparte positiva, perfettamente inserita nello scenario naturale boschivo del Canada, della combriccola di malvagi predatori, piombati come gli alieni devastatori di “Independence Day” nella regione dei Grandi Laghi.


Color Tex n. 2 con la copertina di Villa (C) Sergio Bonelli Editore, 2012


Color Tex 2
I BANDITI DELLE NEBBIE
Agosto 2012
pag. 164 (a colori), € 5,50
Testi: Pasquale Rujo
Disegni: Ugolino Cossu
Colori: GFB Comics (Nucci Guzzi)
Copertina: Claudio Villa


Francesco Manetti

N.B. i link alle recensioni bonelliane sono sul Giorno del Giudizio!

martedì 25 settembre 2012

MARCO GRASSO DEL FORUM ZTN DISEGNA UNA PARODIA ZAGORIANA!

Ecco cosa ci scrive l'amico Marco Grasso: "Salve! Intanto una premessa: clap clap! smile Ero un lettore di Dime Press e la ritenevo la rivista di riferimento per i Bonelliani come me. Quindi accolgo con piacere questa sua naturale evoluzione sul web. Ho avuto il piacere la scorsa settimana di trascorrere molto tempo qui a Catania con Moreno e l'inossidabile Ferri. Faccio parte del forum Zagoriano ZTN e assieme a Moreno e al mio amico Giuseppe Reina abbiamo avuto il grande onore di realizzare un albetto di Zagor a tiratura limitata: "La strega e... le altre!". E' incentrato sui personaggi femminili di Zagor e lo abbiamo presentato la scorsa settimana durante la manifestazione Etna Comics. Spero allora vi possa fare sorridere la mini storia che ho dedicato a Moreno che trovate in allegato. Disegno come il piede sinistro di Cavazzano ma è l'impegno che conta (così si dice quando in realtà uno è scarso...)". (s.c. & f.m.)


La parodia di Marco Grasso ("Markfat") con Burattini protagonista (c) 2012



Marco Grasso in Sicilia, fra Gallieno Ferri e Moreno Burattini. Come scrive Burattini nel suo blog "Grasso mostra orgoglioso il terzo premio (il video dei festeggiamenti abruzzesi del cinquantennale di Zagor) vinto nel concorso dei fratelli Di Vitto organizzato dal sito La piazza di Scanno (il borgo in provincia dell'Aquila dove vivono i due disegnatori)".



L'albetto dedicato all'universo femminile zagoriano presentato a Etna Comics, settembre 2012.


La cartolina realizzata da Marco Grasso per i 50 anni di Moreno Burattini.


N.B. Trovate i link alle altre parodie bonelliane sulla pagina Cronologie e index!

UNA NUOVA PARODIA BONELLIANA INEDITA DI PIERI & KANT: MAGICO VENTO!

Dopo la parodia di Mister No pubblicata qualche giorno fa ecco una nuova tavola inedita umoristica di Pieri & Kant! Stavolta nel mirino c'è Magico Vento... (s.c. & f.m.)



La nuova parodia bonelliana di Pieri & Kant, originariamente preparata per Dime Press ma mai pubblicata. (C) degli autori 2001 - 2012

E prossimamente (con ogni probabilità sul blog di Moreno Burattini Freddo Cane in Questa Palude) Pieri & Kant presentano un'avventura inedita di Battista il Collezionista, il personaggio creato dallo stesso Burattini sulla fanzine Collezionare!

N.B. trovate i link alle altre parodie bonelliane del D.I.M.E. sulla pagina Cronologie e index!

domenica 23 settembre 2012

FUGA IMPOSSIBILE: UNA LETTURA DEL MAXI ZAGOR 18

di Francesco Manetti


Mister No a Darkwood!

A poco meno di un anno dalla scomparsa di Sergio Bonelli e del suo alter ego letterario Guido Nolitta esce il Maxi Zagor n. 18, “La prigione sul lago”. Come ben spiega il curatore della serie Moreno Burattini nell'introduzione, l'albo potrebbe essere considerato una sorta di omaggio al grande autore/editore assente ormai dal 2011. Innanzitutto in virtù degli autori del racconto, lo sceneggiatore Luigi Mignacco e i disegnatori Domenico e Stefano Di Vitto, che hanno lavorato per tanti anni alla collana di Mister No, una delle più celebri creature nolittiane. E poi l'ambientazione fluviale, che potrebbe rimandare all'intrico d'acqua che è l'Amazzonia. Infine un personaggio, il battelliere donnaiolo Rick Rogers che, come scrive ancora il Burattini, potrebbe assomigliare a Jerry Drake, in quanto a carattere e a focosità d'animo.



Mister No e il carcere. Copertina del n. 58, marzo 1980.


La storia, vista con l'occhio del lettore di romanzi di genere o d'appendice, non è soltanto una classica avventura di Darkwood, quel regno del possibile e dell'impossibile, il nodo dove si incrociano mondi alieni e realtà alternative, il soft place che abbiamo imparato a conoscere sul primo “zagorone”, ma si tinge anche di una pennellata di steampunk. La fortunata corrente fantascientifica, dove l'era vittoriana precorre i tempi con futuribili macchinari azionati a vapore, fa qui capolino – solo capolino, con i sommergibili mediante i quali viene dato l'assalto al carcere sul lago: all'epoca di Zagor i sottomarini dovevano apparire come oggi apparirebbe un aereo stealth del tutto rivoluzionario! Quando si dice “letteratura d'evasione”! Il forte militare nella prateria viene sostituito con una prigione di massima sicurezza edificata su un isolotto lacustre.

Johnson's Island, sede del carcere federale durante la Guerra di Secessione americana.



Acqua e sbarre

Nel 1862 fu aperto negli Stati Uniti il carcere federale di Johnson's Island, tre miglia al largo della cittadina di Sandusky, sul Lago Erie. Pensato per ospitare gli ufficiali di alto grado della Confederazione, catturati durante la Guerra di Secessione, accolse anche soldati di truppa. Rimase in funzione per tre anni ed entrarono nelle sue celle più di 15.000 galeotti. Più ostico è il carcere, più si scatena la fantasia del carcerato che sogna di tornare uccel di bosco, come ben potrebbero testimoniare Frank Morris e i fratelli Anglin, protagonisti nel 1962 di una spettacolare fuga da Alacatraz, narrata con maestria da Don Siegel nel celeberrimo film del 1979 interpretato da Clint Eastwood.


Frank Morris, protagonista della fuga da Alcatraz nel 1962.



La famigerata Alcatraz!



Volando verso il suolo patrio e atterrando sull'arcipelago toscano numerosi sono stati i carceri isolani, rimasti aperti e funzionanti fino in anni recenti. La Gorgona, la Capraia, Pianosa... Oppure potremmo planare sull'Asinara, nel Mar di Sardegna. Alcuni di questi si pensa addirittura di riaprirli, per dare una risposta alla crescente domanda di sicurezza che si leva dal basso. Vox populi...




Il carcere dell'Asinara.


Il carcere della Capraia.

Il carcere di Pianosa.


Il carcere della Gorgona.



E per finire, come non ricordare un'altra famosa gattabuia isolana nel mondo del fantastico? In questo caso la galera coincideva con l'intera isola, quella di Manhattan, in un 1997 alternativo, in un futuro ideato nel passato da un John Carpenter in stato di grazia. Un futuro cupo, oscuro, nero, ma che certo non avrebbe mai potuto essere immaginato – pur con tutto il pessimismo del regista – in uno scenario paragonabile alla devastazione totale dell'11 settembre...


La locandina di "Escape from New York", ovvero "1997 Fuga da Manhattan", 1981.




La copertina del Maxi Zagor n. 18, luglio 2012, disegnata da Ferri. (C) Sergio Bonelli Editore



Maxi Zagor 18
LA PRIGIONE SUL LAGO
Luglio 2012
pag. 292, € 6,50
Testi: Luigi Mignacco
Disegni: Domenico e Stefano Di Vitto
Copertina: Gallieno Ferri
Introduzione: Moreno Burattini


Francesco Manetti

N.B. i link alle recensioni bonelliane sono sul Giorno del Giudizio!

giovedì 20 settembre 2012

UNA TAVOLA INEDITA DI PIERI & KANT CON LA PARODIA DI MISTER NO!

Omaggio a Guido Nolitta di Filippo Pieri e Kant

L'amico Filippo Pieri ci ha inviato una tavola inedita della serie di parodie bonelliane D.I.M.E. (disegnate da Andrea "Kant" Cantucci) che venivano pubblicate su Dime Press. In memoria del grande Sergio! (s.c. & f.m.)

Tavola inedita di Pieri & Kant, realizzata per Dime Press, ma mai pubblicata (C) degli autori 2000-2012

N.B. Trovate i link alle altre tavole della serie D.I.M.E. sulla pagina delle Cronologie e Index!

FROM THE VAULT... I PRIMI ZOMBIE DI DYLAN DOG!

di Francesco Manetti

Intorno al 1991 entrai a far parte dello staff di Immagine, l'associazione culturale guidata da Rinaldo Traini che organizzava il Salone del Fumetto a Lucca. Purtroppo Immagine avrebbe continuato a occuparsi di Lucca solo per qualche anno ancora, prima di impegnarsi con Expocartoon a Roma.
Per me furono anni molto intensi, i Novanta! Il Club del Collezionista, Collezionare, Dime Press, Bhang, la Glamour, il GAF, Exploit Comics, If, la Comic Art con gli articoli, le traduzioni e i libri (tra i quali la collana del Paperino di Barks), Macchia Nera con le rubriche su Cattivik, la libreria Mondi Paralleli, i fumetti di Eva & Chris, Cavalcando con Tex per Little Nemo, l'Alan Ford Index, il sito internet della Bonelli con le schede di Tex... e così via.
Con il 2001 ridussi e dal 2003 azzerai ogni impegno nel comicdom. Solo nel 2011, grazie a Moreno Burattini, a Paolo Ferriani, alla Magic Press, a Max Bunker e alla Mondadori ho ricominciato a scrivere, curando i redazionali della collana Alan Ford Story allegata a Panorama (dal 101 al 150). Poi ho aperto il blog Dime Web con Saverio Ceri, tentando di far rivivere elettronicamente il “magazzino bonelliano” Dime Press.

Un raro documeto del 1992. Benito Jacovitti, apponendo la sua firma, dichiara di ricevere indietro gli originali che aveva concesso per la mostra allestita a Lucca a cura di Bruni & Manetti per l'Ente Autonomo Max Massimino Garnier.



Dicevo di Lucca. I pranzi e le cene erano momenti preziosi per incontrare fuori dal caos della mostra, davanti a un bicchiere di vino, critici e autori del fumetto da tutta Italia e dal mondo. In uno di questi momenti conviviali ero in compagnia di Mauro Bruni (commerciante, animatore del GAF e collaboratore di Exploit Comics, con il quale avevo curato due mostre, una delle quali nel 1992 su Jacovitti, grazie alla quale ebbi l'onore di conoscere bene il “maestro dei salami” e di incontrarlo più volte in privato nelle sue case di Roma e del Forte dei Marmi, e mi capitò addirittura di presentarlo a Bonelli, che ancora, incredibilmente, non lo conosceva), Enrico Fornaroli (che aveva redatto e pubblicato una profondissima tesi su Milton Caniff) e Daniele Barbieri (grande esperto del linguaggio del comic, allievo di Umberto Eco). Forse c'era anche il “valvolinico e cannibale” Daniele Brolli – ma non ci metterei la mano sul... Fuego! Decidemmo di confezionare un saggio su Dylan Dog, che proprio allora compiva cinque anni di vita, ed era già un successo stratosferico.
Mi misi a scrivere un pezzo sui mostri affrontati dall'Indagatore dell'Incubo, partendo dai non morti. E lì, con l'ultimo zombie di allora, mi fermai. Il progetto, infatti, si era arenato, come spesso succedeva nell'ambiente già allora, quando c'erano tirature più alte per la saggistica e l'unica distrazione dal fumetto era ancora considerata unicamente la TV.
Anni dopo ripresi l'articolo e lo pubblicai su Facebook, nelle note. Oggi lo presento su Dime Web.
Ma non basta! In coda ne appare una versione aggiornata, inzialmente pensata per il blog di Moreno Burattini. (F.M.)


Il Frankenstein cinematografico, nell'interpretazione di Boris Karloff


I NON MORTI
Mitologia zombie in Dylan Dog
(versione originale)


"Il mostro lesse nel mio viso la fermezza della determinazione presa e, in un impeto di collera impotente, digrignò i denti . -Ogni uomo trova una moglie peril suo affetto, -gridò, ogni bestia trova la sua compagna, soltanto io devo essere solo? Anch'io ho sentimenti di affetto, ed essi non incontrano che odio e disprezzo. Puoi detestarmi, uomo; ma, bada! le tue ore trascorreranno in terrore e angoscia, e presto cadrà la folgore che t i priverà per sempre di ogni gioia. Puoi negarmi ogni altra passione, ma mi rimane la vendetta... la vendetta che da questo momento- mi è più cara della luce o del cibo. Può darsi che muoia, ma prima tu, mio tiranno e mio torturatore, maledirai il sole che sarà testimone della tua angoscia. Bada! non ho paura e sono quindi onnipossente. Ti sorveglierò con l'astuzia di un serpente, per poterti pungere conil mio veleno. Uomo, ti pentirai delle umiliazioni che mi infliggi."  

Mary Shelley
FRANKENSTEIN, cap.XIX, 1817
 


Il mito della resurrezione del corpo, materia corruttibile e transeunte che si contrappone alla dimensione spirituale, diafana ed eterna, dell'uomo, è attestato fin dalle Sacre Scritture, nell'universalmente noto episodio di Lazzaro. La Bibbia, del resto, abbonda di immagini truculente, strane, fantastiche, orrorifiche delle quali si compiace Alex, il protagonista di "A Clockwork Orange" di Stanley Kubrick, quando finge di provare pii interessi religiosi nella biblioteca del carcere. Le sensazioni forti,il colpo d'occhio bizzarro hanno da sempre stimolato la fantasia delle menti più semplici e il potere costituito si è spesso servito di ciò per guidare e ammonire le genti ; ecco dunque le grandguignolesche visioni infernali e le terrificanti metope sulle facciate delle cattedrali romaniche e gotiche.
Lo zombie è per l'appunto il prodotto di questo sotterraneo legame fra religione e orrore, vitale soprattutto nel sincretismo cattolico-animista delle popolazioni nere latinoamericane. Come in una sorta di blasfema imitazione di Cristo,il praticante di magia nera haitiano, detto "bokor", passa sottoil naso del morto da risvegliare una bottiglietta contenente l'anima del malcapitato e lo chiama per nome. Lo zombie si alza a sedere nella bara, pronto a eseguireilavori più pesanti agli ordini dello stregone. Il 'supervisore' di questi macabri riti è Baron Samedi,il Signore dei Cimiteri, il cui simbolo è una croce nera.


La locandina di "White Zombie" di Halperin, 1932


Hollywood si è presto impadronita di questi succulenti folklori a partire da "White Zombie", diretto nel 1932 da Victor Halperin che si ispirò al saggio sul voodoo "The Magic Island" scritto da William Seabrook nel 1929. Il terrificante tende a essere multimediale e il passo dal cinema al fumetto è stato breve.
Questo essere barcollante, dallo sguardo vitreo, pericoloso solo se attacca in gruppo, in modo da circondare la vittima e vincere così l'handicap dell'estrema lentezza e goffag gine, appare in Dylan Dog fin dal prima numero, "L'alba dei morti viventi", per i disegni di Angelo Stano. Gli zombie di Sciavi si liberano da ogni cascame paranormale e diventano tali in virtù della scienza. "Guardate, questo è il virus sintetico che io ho creato. E' imperfetto, certo, ma è solo l'inizio... e, anche così, rappresenta la più grande scoperta nella storia dell'uomo... Iniettato in un cadavere gli restituisce le funzioni vitali... Non è già un miracolo?". Parla Xabaras, che sta a Dylan Dog come Gambadilegno sta a Topolino.
Il tema dell'eterna giovinezza, che evoca rosei volti di splendidi fanciulle e città perdute stile Shangrilà, si sposa con la cruda realtà di putridume e marciume descritta da Tiziano Sciavi in due albi, "La zona del crepuscolo" e "Ritorno al crepuscolo". Anche qui lo zombie non è cosciente del suo stato di "non morto"; il morto vivente è convinto di esser vivo, di esser normale e poco importa seil fisico comincia a disgregarsi, perché basterà una banale visita del medico di fiducia per rimettere le cose a posto. E' uno zombie ancora più moderno, antientoprico, che molto deve ai cadaveri viventi di Chelsea Quinn Yarbro e ai "mesmerizzati" di Edgar Allan Poe. Inverary, il paese-limbo dove vivono questi eterni, è un fortino eretto controil dilagare del nuovo, contro l'incertezza dei mutamenti, controil naturale caoticizzarsi dell'universo. Così le storie "del crepuscolo" diventano anche satira dell'immobilismo, della sclerosi, del riposo del guerriero e i nuovi zombie si fanno simbolo di ogni passato che non vuole morire. Torna la scienza, impersonata dal dottore che ricuce e riaggiusta le membra, quale illuminista (ri)animatrice della situazione.


La copertina di Dylan Dog n. 1 (C) Sergio Bonelli Editore, 1986


Eros e Thanatos

Nella saga di Dylan Dog c'è posto anche per una dimensione "romantica" del resuscitato; ecco dunque "Morgana", una storia che si riallaccia e prosegueil primo numero della serie. Morgana è uno zombie femmina, bellissima e sensuale; non ricorda di essere morta eil suo corpo non si decompone; è persino capace di amare. "Non l'ho certo ridestata con un bacio, come la Bella Addormentata... semplicemente, con un'iniezione del mio siero perfezionato... che le ha ridato vita... e anima... e amore... già, anche quello in fondo non è altro che una reazione chimica... una variazione di potenziale elettrico tra i neuroni...", dice il solito Xabaras, con un piglio dissacratorio quasi futurista ("Uccidiamo il chiaro di luna!") e positivista-carducciano.
Ma non sempre lo zombie è reale: in "Ossessione" si introduce un elemento narrativo particolare, al limite dell'inverosimile-. Sei gemelli non si mostrano mai tutti insieme, apparendo ognuno quando un altro muore, spacciandosi sempre per la stessa persona. In questo caso l'autore gioca sulla finzione facendo leva sulla predisposizione mentale del lettore che, per abitudine, è più portato a credere al cadavere deambulante, fissato nell'immaginario collettivo da decenni di frequentazioni letterarie e cinematografiche, che ad un improbabile parto plurimo degno della signora Giannini.
Perduto ogni elemento sacrale, i morti viventi di Sclavi abbandonano anche la motivazione scientifica del loro essere divenendo familiari -quasi simpatici- agli occhi delle persone che arrivano ad appropriarsi della loro immagine, della loro maschera, come in un'avventura del 1989, dove una banda di teppisti londinesi, gli "Zombies", ha scelto come divisa abiti stracciati, volti pallidi e mangiati, una camminata lenta e incerta.
Abbiamo visto zombie "veri", putrefatti e tonti; zombie marci e intelligenti; zombie sani di corpo e di mente; zombie falsi. Un'ulteriore variazione del tema è lo zombie dal corpo ormai andato a male ma dal cervello lucido che torna per vendicarsi in maniera incruenta, eppure terribile, predicendo a un ex-amico che gli aveva "fatto la scarpe", la sua prossima dipartita per AIDS.

La copertina di Dylan Dog n. 43 (C) Sergio Bonelli Editore, 1990


Con "Storia di Nessuno" la coppia Sciavi/Stano torna insieme per la terza volte chiudendo una trilogia sugli zombie iniziata nel 1986; anche qui le caratteristiche del morto vivente "classico" si stemperano in una sceneggiatura ricca di soluzioni nuove. Lo zombie stavolta è protagonista della fabula e rivive in un sogno e in fantasie di dimensioni parallele la sua carriera di uomo vivo e poi non-vivo. Dopo la rivisitazione in chiave scientifica e successivamente romantica nei primi due episodi di questa "miniserie" interna alla collana, l'archetipo morto-che-cammina è soggetto di indagine psicologica da partedell'autore: "In questo caso voi dovreste essere un... un morto vivente... che tra l'altro ha sbranato sua moglie...", dice Xabaras,nell'inconsueta veste di psichiatra, all'uomo che vede se stesso (nel futuro? su un altro mondo?) uno zombie. "No, erano sogni, vi ripeto. Certo, molto realistici, ma tutto quell'orrore per fortuna è solo nella vostra fantasia...".




RISORTI OBTORTO COLLO
L'esordio degli zombie nella saga di Dylan Dog
(versione aggiornata)


“Memento homo, quia pulvis est et in pulverem reverteris”, recitava la Genesi. Ma l'uomo non si è mai accontentato di tornare semplicemente polvere, di tornare cioè quello che era quando – miliardi di anni fa – fu creato nei suoi elementi nelle fornaci stelalri delle supernove. E dunque, non solo il destino pulviscolare, ma anche il mito della resurrezione del corpo, materia corruttibile e transeunte che si contrappone alla dimensione spirituale, diafana ed eterna, è attestato fin dalle Sacre Scritture, nel noto episodio di Lazzaro. La Bibbia, del resto, abbonda di immagini truculente, strane, fantastiche, orrorifiche... Di alcuni momenti piùtrivialisi compiace per esempio Alex, il protagonista di "A Clockwork Orange" di Stanley Kubrick, quando finge di provare pii interessi religiosi nella biblioteca del carcerecon l'unico scopo di incattivirsi il prete dalle dubbie inclinazioni e poter così accedere al Progetto Ludovico e alla conseguente uscita dalla prigione. Del resto le sensazioni forti e il colpo d'occhio bizzarro hanno da sempre stimolato la fantasia delle menti più semplici, tanto che il potere costituito si è spesso servito di questo per guidare e ammonire le genti; ecco dunque le terrificanti metope sulle facciate delle cattedrali romaniche e gotiche e, soprattutto, le grandguignolesche visioni infernali degli affreschi. In un mondo solo in minima parte alfabetizzato quei dipinti che raccontavano storie con immagini ordinate in sequenza temporale (e magari anche con cartigli di “parlato” che uscivano dalla bocca dei protagonisti...) erano il modo antico per narrare in modo veloce e comprensibile da tutti. E narrando, ammonivano con il terrore.


La Danza Macabra. Affresco del XV secolo, opera di Giacomo Borlone De Buschis. Oratorio dei Disciplini, Clusone (BG)



Lo zombie è per l'appunto il prodotto di questo sotterraneo legame fra religione e orrore, vitale soprattutto nel sincretismo cattolico-animista delle popolazioni nere latinoamericane, come ben sa il lettore nolittiano che ha vissuto insieme a Jerry Drake alcuni spaventosi momenti soprannaturali ai crocicchi delle strade, magari fuori Bahia... Come in una sorta di blasfema imitazione di Cristo, il praticante di magia nera haitiano, detto "bokor", passa sotto al naso del morto da risvegliare una bottiglietta che dovrebbe contenere l'anima del malcapitato e lo chiama per nome. Lo zombie si alza a sedere nella bara, pronto a eseguire i lavori più pesanti agli ordini dello stregone. Il 'supervisore' di questi macabri riti è Baron Samedì,il Signore dei Cimiteri, il cui simbolo è una croce nera.
La macchina dei sogni (o degli incubi?) hollywoodiana si è ben presto impadronita di questi succulenti folklore nati laddove le cartine promettevano leoni a partire da "White Zombie", diretto nel 1932 da Victor Halperin, film in bianco-e-nero che si ispirò al saggio sul voodoo "The Magic Island" scritto da William Seabrook nel 1929. Come abbiamo già notato, il terrificante tende a essere multimediale fin da Chartres e Notre-Dame de Paris, e il passo dal cinema al fumetto è stato breve.
Questo essere barcollante, dallo sguardo vitreo, sorta di drone veramente pericoloso solo se attacca in gruppo (come i piranha o le formiche rosse o le api assassine...), in modo da circondare la vittima e vincere così l'handicap dell'estrema lentezza e goffaggine, appare in Dylan Dog fin dal primo numero della serie, "L'alba dei morti viventi", disegnato da Angelo Stano con una cifra stilistica che rompe i maniera assoluta i canoni bonelliani. Gli zombie moderni (o forse addirittura post-moderni) escogitati da Sclavi si liberano da ogni cascame paranormale e diventano tali in virtù della scienza. Il mostro, come in Frankenstein di Shelley, non è più Dio per interposta Natura a crearlo, ma l'Uomo divinizzato, che fatto non fu per viver come bruto, ma per seguir virtute e conoscenza. "Guardate, questo è il virus sintetico che io ho creato. E' imperfetto, certo, ma è solo l'inizio... e, anche così, rappresenta la più grande scoperta nella storia dell'uomo... Iniettato in un cadavere gli restituisce le funzioni vitali... Non è già un miracolo?".


La locandina del Dylan Dog Horror fest del 1992, anno in cui era ancora non morto il progetto di un libro di Barbieri & C. sulla creatura di Sclavi.



Parla Xabaras, che sta a Dylan Dog come Gambadilegno sta a Topolino o come Moriarty sta a Sherlock Holmes. O meglio, come si sarebbe scoperto andando avanti con la lettura della collana, come Darth Vader sta a Luke Skywalker nella saga cinematografica di Star Wars!
Il tema dell'eterna giovinezza, che evoca rosei volti di splendidi fanciulle e città perdute in stile Shangrilà o Fonti della Giovinezza nel Nuovo Mondo, si sposa con la cruda realtà di putridume e marciume descritta dallo scrittore di Broni in due albi, "La zona del crepuscolo" e "Ritorno al crepuscolo". Anche qui lo zombie non è cosciente del suo stato di "non morto"; il morto vivente è convinto di esser vivo, di esser normale e poco importa se il fisico comincia a disgregarsi, perché basterà una banale visita del medico di fiducia per rimettere le cose a posto. E' uno zombie ancora più moderno, che combatte e sconfigge l'entropia e che molto deve ai cadaveri viventi di Chelsea Quinn Yarbro e ai "mesmerizzati" di Edgar Allan Poe oppure alla black comedy del grande schermo diretta nel 1992 da Zemeckis con il titolo diDeath Becomes Her(ovveroLa morte ti fa bellain italiano). Inverary, il paese-limbo dove vivono questi eterni, è un fortino eretto contro il dilagare del nuovo, contro l'incertezza dei mutamenti, contro il naturale caoticizzarsi dell'universo. Un po' quello che accade, fatte le debite proporzione con la storia di Martin Mystère nella Londra congelata di Peter Pan, uscita nel 1989. Così le storie "del crepuscolo" diventano – seguendo la lezione dei Dubliners di Joyce - anche satira dell'immobilismo, della sclerosi, del riposo del guerriero e i nuovi zombie si fanno simbolo di ogni passato che non vuole morire. Torna la scienza, impersonata dal dottore che ricuce e riaggiusta le membra, quale illuminista (ri)animatrice della situazione.
Nella saga di Dylan Dog, donnaiolo per eccellenza (ovviamente politically correct!) c'è posto anche per una dimensione "romantica" del resuscitato; ecco dunque "Morgana", una storia che si riallaccia al primo numero della collezione, e ne prosegue il discorso. Morgana è uno zombie femmina, bellissima e sensuale; non ricorda di essere morta e il suo corpo non si decompone; è persino capace di amare. In un certo senso anticipa tutte le vampire erotiche che avremmo visto – fino alla nausea – nel decennio successivo, con trame e pellicole studiate da addetti al marketing per attizzare inquieti adolescenti. "Non l'ho certo ridestata con un bacio, come la Bella Addormentata... semplicemente, con un'iniezione del mio siero perfezionato... che le ha ridato vita... e anima... e amore... già, anche quello in fondo non è altro che una reazione chimica... una variazione di potenziale elettrico tra i neuroni...", dice il solito Xabaras, con un piglio dissacratorio quasi futurista ("Uccidiamo il chiaro di luna!" diventaUccidiamo la Morte!) e positivista-carducciano.
Ma nella saga dylandogghiana non sempre lo zombie è reale: in "Ossessione" si introduce un elemento narrativo particolare, al limite dell'inverosimile, seppur geniale. Sei gemelli non si mostrano mai tutti insieme, apparendo ognuno quando un altro muore, spacciandosi sempre per la stessa persona. In questo caso l'autore gioca sulla finzione facendo leva sulla predisposizione mentale del lettore che, per abitudine, è più portato a credere al cadavere deambulante, fissato nell'immaginario collettivo da decenni di frequentazioni letterarie e cinematografiche di genere, che ad un improbabile parto plurimo degno della signora Giannini.





Perduto ogni elemento di sacralità, i morti viventi di Sciavi abbandonano anche la motivazione scientifica del loro essere divenendo familiarie fin quasi simpatici - agli occhi delle persone che arrivano ad appropriarsi della loro immagine, della loro maschera, come in un'avventura del 1989, dove una banda di teppisti londinesi, detti gli "Zombies" per l'appunto, ha scelto come divisa abiti stracciati, volti pallidi e mangiati, con una camminata lenta e incerta.
Abbiamo visto zombie "veri", putrefatti e tonti; zombie marci e intelligenti; zombie innamorati; zombie sani di corpo e di mente; zombie falsi. Un'ulteriore variazione del tema è lo zombie dal corpo ormai andato a male ma dal cervello lucido che torna per vendicarsi in maniera incruenta, seppure terribile, predicendo a un ex-amico che gli aveva "fatto la scarpe", la sua prossima dipartita per AIDS, come in una delle più famose leggende metropolitane di fine secolo (scorso).
Con "Storia di Nessuno" la coppia Sclavi/Stano torna insieme per la terza volte, chiudendo un'ideale trilogia sugli zombie iniziata nel 1986 dell'esordio; anche qui le caratteristiche del morto vivente "classico" si stemperano in una sceneggiatura ricca di soluzioni innovative. Lo zombie stavolta è protagonista della fabula e rivive in un sogno e in fantasie di dimensioni parallele la sua carriera di uomo vivo e infine non-vivo. Dopo la rivisitazione in chiave scientifica e successivamente romantica nei primi due episodi di questa specie di "miniserie" interna alla collana, l'archetipo morto-che-cammina è soggetto di indagine psicologica da parte dell'autore: "In questo caso voi dovreste essere un... un morto vivente... che tra l'altro ha sbranato sua moglie...", dice Xabaras, nell'inconsueta veste di psichiatra, all'uomo che vede stesso (nel futuro? su un altro mondo?) uno zombie. "No, erano sogni, vi ripeto. Certo, molto realistici, ma tutto quell'orrore per fortuna è solo nella vostra fantasia...".

Francesco Manetti


N.B. Trovate altre notizie sul passato di Dime Web nelle pagine Chi diavolo siamo? e Da Collezionare a Dime Press! Trovate invece i link agli altri articoli From the Vault su Cronologie & Index!