giovedì 22 giugno 2017

LILITH 18. RITORNO AL FUTURO: LA SCELTA DELLA BAMBINA PERDUTA


di Andrea Cantucci

Due saggi indiani in una miniatura del XVIII secolo



Tutto quanto esiste è Bráhman (…)
ciò da cui ogni cosa è emersa,
ciò in cui si dissolverà, ciò in cui respira (…)
abbracciante tutto ciò che è,
silenzioso, indifferente,
è questo Sé, che è dentro il mio cuore.
Questo è lo stesso Bráhman.
Uscendo da questo mondo in esso trapasserò.
(dalla Chāndogya Upanișad, circa VII secolo a.C.)


Una pagina delle Upanisad, da un manoscritto del XVII secolo



Tu, libero dal "noi" e dall'"io",
spirito sottile in ogni uomo e donna. (…)
Hai fatto questo "noi" e questo "io"
per poter giocare a corteggiare te stesso,
affinché tutti i "tu" e gli "io" diventino un'anima sola…
Jalāl al-Dīn Rūmī (1207-1273 d.C.)


Il segreto del mondo è di collegare le persone e gli eventi.
Ralph Waldo Emerson (1803-1882)


I Green River Cliffs, in un dipinto di Thomas Moran






















Per il gran finale della saga di Lilith, Luca Enoch mantiene inalterata l’ambientazione storica della sua serie per il terzo numero consecutivo. Siamo ancora nel Nord-America di fine XVIII secolo, con la delegazione dei capi degli insorti statunitensi che, dopo il lungo viaggio dell’episodio precedente, sono infine giunti insieme alla protagonista nella zona a ovest del continente, che nella nostra Terra corrisponderebbe al selvaggio West ma che nella realtà alternativa generata dai viaggi temporali di Lilith è invece occupata dal Giappone.
Il famoso paesaggio dei Green River Cliffs (le Rupi del Fiume Verde) con cui si apre la storia e che Enoch ha ripreso da uno dei tanti quadri che il pittore Thomas Maron ha dedicato a questo pittoresco soggetto tra il 1871 e il 1896, indica che quest’ultimo capitolo si svolge inizialmente in quello che nella nostra realtà attuale è lo stato del Wyoming. È proprio tra quelle formazioni naturali, sul versante occidentale delle Montagne Rocciose, che sorge il castello giapponese sotto il comando del nobile Tsugaru Nobuyasu, dove Lilith e i suoi compagni di viaggio vengono scortati dai cavalieri nipponici che hanno incontrato nel numero scorso.


I Green River Cliffs, da Lilith 18 (pagg. 6-7)


Per una volta non appaiono nuovi personaggi storici realmente esistiti, né assumono ruoli particolarmente rilevanti quelli apparsi in precedenza e da noi già citati nelle scorse recensioni. Oltre a Tsugaru, ritroviamo Benjamin Franklin, il maggiore Rogers, il marchese di La Fayette, il capo irochese Gaiänt’wakê (Cornplanter), Thomas Jefferson e George Washington, ma tutti in ruoli più o meno marginali. Stavolta infatti l’attenzione è naturalmente concentrata soprattutto su Lilith e sulle scelte cruciali che deve compiere e che avranno conseguenze non solo sul suo futuro personale, ma su quello dell’intera Umanità e dello stesso pianeta.

Lilith in abito giapponese insieme a Franklin, da Lilith 18, pag. 25

Il nobile Tsugaru avvista la bandiera inglese, da Lilith 18, pag. 73


Anzitutto la nostra eroina deve fronteggiare il giovane samurai Jerome, deciso a vendicare il proprio padre da lei ucciso in precedenza. Poi svolge un ruolo importante nel contrasto che insorge tra i Giapponesi e i coloni americani, poiché i primi non vogliono inimicarsi irrimediabilmente gli Inglesi dando asilo a dei ribelli fuggiaschi. Ma un piano ideato da Lilith fa sì che lo scontro tra Giappone e Inghilterra diventi inevitabile e ai nativi di varie nazioni indiane, strette tra l’invasione inglese a Est e quella giapponese a Ovest, non resta che scegliere il male minore alleandosi con i, per ora, meno pericolosi insorti americani. Ne approfittano però per dare a questi ultimi una lezione di vera democrazia, pretendendo che la decisione di unirsi per combattere i Giapponesi non sia presa a maggioranza ma solo se c’è l’unanimità, come nei consigli di guerra irochesi.

Lilith minacciata da un samurai, da Lilith 18 pag 30

I Nativi si alleano cogli Americani, da Lilith18, pag. 57


Dato il suo determinante contributo a quest’inedito conflitto, che chissà in quale modo modificherà poi il futuro del continente in questa realtà parallela, Lilith deve rivolgere tutta la sua attenzione alla ricerca del Triacanto e alla decisione di quale atteggiamento assumere rispetto a questa entità, che non sembra essere mai stato il parassita alieno che le era stato insegnato a temere e odiare fin da bambina. Si tratterebbe invece di una sorta di manifestazione dello spirito della Terra che ha lo scopo di riassorbire in sé tutte le varie individualità del pianeta, per permettere loro di accedere in seguito a un più evoluto livello di esistenza.Nell’introduzione dell’albo, Enoch dichiara che questa interessante idea gli è stata ispirata soprattutto dal pensiero del filosofo e poeta statunitense dell’800 Ralph Waldo Emerson. Questi teorizzò l’esistenza di una sorta di unità originaria da lui chiamata Over-soul (Oltre-anima o Super-anima), di cui farebbero parte tutti gli esseri umani e che trascende le caratteristiche individuali di ognuno, comprendendole al suo interno insieme a quelle di tutti gli altri. Si costituirebbe così una fonte di creatività impersonale e collettiva a cui concorrono unite le intelligenze, gli istinti e i sentimenti di tutta l’Umanità, mentre le coscienze dei singoli io e le loro verità provvisorie trascorrono e si trasformano perennemente in un costante fluire ininterrotto.

Ritratto di Emerson


Foto di Ralph Waldo Emerson anziano


Una tale concezione, come quelle di tutti i veri mistici e poeti, è molto più vicina a una filosofia panteista che alle superficiali e spesso opprimenti teologie monoteiste. Infatti Emerson, pur essendo figlio d’un pastore protestante e in gioventù pastore lui stesso per tre anni della Chiesa Unitariana (una dottrina che nega i dogmi della Trinità e della divinità di Cristo), finì per muovere dure critiche al Cristianesimo durante un discorso alla facoltà di Teologia di Harvard che gli costò la messa al bando da quell’università per trent’anni.Come scrive anche Enoch, la filosofia di Emerson non è troppo diversa da quella induista del Vedānta, che pare essere stata una delle sue fonti d’ispirazione. Il Vedānta si basa su vari testi sacri dell’India a partire dalle Upanișad (Sedute ai piedi dei maestri), oltre cento opere composte tra IX e V secolo a.C. dette appunto anche Vedānta (Conclusione dei Veda), poiché costituiscono un’aggiunta maggiormente speculativa agli inni fondamentali dell’Induismo, i Veda (Saperi), la cui composizione sarebbe invece iniziata oltre tremila anni fa.



Il dio Brahma. Scultura indiana del XIII secolo


Le idee contenute nelle Upanișad furono risistemate in una filosofia più elaborata intorno all’VIII secolo d.C., a opera di saggi asceti come Gaudapàda e soprattutto Śankara, ritenuto il più grande filosofo indiano. Questi due fondatori delle prime forme del Vedānta, intesa come filosofia sviluppatasi poi in correnti dalle sfumature e valutazioni diverse, consideravano illusoria la realtà che appare suddivisa in innumerevoli entità distinte e concepivano come vera realtà la dimensione trascendente del Bráhman (in sanscrito letteralmente “pensiero diffuso” o “immensità”), l’impersonale energia cosmica in cui tutte le cose coesistono senza soluzione di continuità, senza dividersi in soggetti separati né in concetti opposti e quindi senza conflitti di nessun tipo.

Statua di Gaudapada


Sankara in un dipinto di Raja Ravi Varma (XIX secolo)


In pratica la condizione del Bráhman costituirebbe una sorta di riconciliazione universale in cui lo spirito del tutto coincide perfettamente con quello di ogni individuo o cosa, tanto che in sanscrito entrambi possono essere indicati col termine Ātman (alla lettera “pensiero del respiro”), che indica il soffio del Sé interno a tutte le cose, la cui sostanziale identità col Bráhman esterno è espressa in particolare in molti passaggi della Chāndogya Upanișad (Upanișad del Cantore di Inni), che si ritiene composta tra l’VIII e il VI secolo a.C.

Una pagina della Chandogya Upanisad


Le speculazioni del Vedānta in merito al Bráhman, giungendo in Occidente, nel corso dell’800 influenzarono non solo le teorie di Emerson, ma anche quelle del filosofo tedesco Arthur Schopenhauer, mentre nei miti dei culti popolari dell’India questo concetto astratto, ineffabile e indescrivibile, è anche stato personificato sotto forma di un demiurgo divino, il dio creatore Brahmā, così come nell’allegoria dell’uomo primordiale chiamato Purusha (Persona), dal cui smembramento hanno origine tutte le cose, ma si può dire che nella filosofia indiana tutte le divinità sono considerate delle diverse manifestazioni del Bráhman indifferenziato.

Il capo dei cardi estrae il Triacanto da Jerome, da Lilith 18, pag. 36


Comunque, che si voglia chiamarla Oltre-anima o Bráhman, è verso una simile dimensione idilliaca del tutto priva di contrasti che in teoria Lilith potrebbe condurre l’intera Umanità, se accetta di guidare il Triacanto fino agli ultimi umani che, nel futuro da cui lei proviene, rifiutano ancora di abbandonarsi alla sua influenza e di lasciarsi assorbire da lui. Ma così sarebbero spazzate via, almeno provvisoriamente, tutte le loro attuali esistenze fisiche individuali e separate, delle vite umane che benché spesso problematiche, frustranti o dolorose, possono riservare pur sempre qualche momento di gioia o soddisfazione. Appare perciò un po’ crudele da parte dell’autore aver stabilito che tutta questa responsabilità debba gravare su una decisione della sola Lilith, senza che venga concessa nessuna voce in capitolo a tutti gli altri esseri umani del futuro.In questi ultimi episodi si compie un salto di qualità, superando le banali contrapposizioni tra buoni e cattivi, quando si scopre come anche le motivazioni del Triacanto siano a loro modo disinteressate e idealistiche, ma il fatto che l’ipotetica evoluzione del pianeta non possa avvenire finché tutti non sono riassorbiti dal Triacanto, anche con la forza, potrebbe giustificare senza volerlo certi atteggiamenti oppressivi sul tipo di quelli dei più diversi generi di sette e regimi, che in nome perfino dei più elevati ideali non sono quasi mai disposti a concedere libertà di scelta ai singoli individui, se non quella di sottomettersi o scomparire.

Le spire del Triacanto, da Lilith 18, pag, 119


Anche se la concezione a cui Enoch cerca di introdurre i lettori è affascinante dal punto di vista poetico e filosofico, l’autore non sembra insomma aver preso molto in considerazione, né risolto in modo abbastanza soddisfacente, i problemi relativi alla libertà di scelta e alle esigenze personali. Queste cose del resto sono proprio quelle che una simile concezione mistica chiede di trascendere, rinunciando in un certo senso a sé stessi, ovvero a quella che a quel punto sarebbe solo l’illusione delle proprie piccole necessità individuali egoistiche, per identificarsi con una realtà di gran lunga più vasta e virtualmente priva di limiti.Ad ogni modo, essendo un racconto fantastico che certo non pretende di diventare il testo sacro di nessuno, la saga di Lilith acquista ugualmente, in questo provocatorio finale in cui tutto viene rimesso in discussione, un valore simbolico analogo a quello di quei miti che riescono a far intravedere delle possibili verità spirituali.Letta come allegoria la storia allude infatti a una condizione che in fondo dovrebbe essere per tutti ampiamente auspicabile, l’ancora remota possibilità che prima o poi gli esseri umani prendano coscienza di essere gli uni parte degli altri e una cosa sola con la natura del pianeta in cui vivono, smettendo di cercare con ogni mezzo di distruggersi a vicenda insieme all’ambiente indispensabile alla loro sopravvivenza.

La furia dello Scuro contro i cardi, da Lilith 18, pag. 87


Intanto in quest’ultimo capitolo il ruolo più conflittuale e violento non è più rivestito dal Triacanto ma dallo Scuro, la guida virtuale di Lilith, che in certe scene perde finalmente la sua aria disneyana di pantera da cartone animato, acquistando una volta tanto un aspetto feroce e spietato da autentica belva. Lilith, come rappresentante dell’intera Umanità, è chiamata a scegliere tra la furia animalesca e selvaggia, ma anche piena di vitalità e iniziativa individuale, rappresentata dallo Scuro (l’ologramma programmato per difendere e preservare a ogni costo l’Umanità così com’è) e dall’altro lato l’apparente tranquillità vegetale, a sua volta non priva di armi e risorse, del Triacanto, la cui forma di albero rimanda a uno dei simboli sacri più antichi.Pressoché in tutte le mitologie l’albero sacro rappresenta l’asse cosmico, il punto inamovibile da cui vengono generate e attorno a cui ruotano tutte le cose, nonché il tramite tra la materia della Terra in cui affonda le radici e le dimensioni trascendenti dei Cieli verso cui protende i rami, ma rimanda anche a una condizione idilliaca, ovvero l’unione con una Madre Terra ricca di frutti e generosa nel donarli, uno stato di armonia con quella Natura da cui l’Uomo è stato generato e a cui sogna spesso di ritornare. Anche riunirsi al Triacanto significa formare un unico spirito collettivo, in cui Uomo e Natura tornerebbero a essere una cosa sola.

L'essere universale in un'antica illustrazione indiana


la spirale del Triacanto sul frontespizio di Lilith 18















































È significativo che, mentre cercano di tirarla ognuno dalla propria parte, lo Scuro continui a chiamare la protagonista col nome di Lilith, come la demone babilonese considerata capostipite dei vampiri, quasi a invitarla a mantenere il ruolo di combattente violenta e sanguinaria, mentre il Triacanto la chiama Lyca, il suo nome di bambina smarritasi in un certo senso in un mondo di continui conflitti. È chiaro da vari numeri che, dentro di sé, Lilith vorrebbe ritrovare la pace, la gioia e l’armonia perdute, senza più dover lottare e uccidere, una condizione rappresentata appunto dall’Albero della Vita delle più diverse culture, in qualche modo compatibile, sicuramente non per caso, con le caratteristiche del Triacanto nella sua forma vegetale.Infatti in mitologie mesopotamiche, mediterranee o nordiche i frutti dell’albero sacro donano l’immortalità e l’eterna giovinezza e qualcosa di simile si ottiene anche unendosi al Triacanto, visto che significa accedere a uno stato indifferenziato a-temporale e privo di limiti, che permette poi di continuare a esistere senza fine anche fisicamente attraverso altre vite, ovvero grazie a nuove manifestazioni dello spirito del mondo.

L'originale Lilith babilonese


L'Albero della Bodhi in un rilievo indiano (I sec a.C.)


Un’analoga trasformazione è rappresentata anche dall’albero buddista della Bodhi (il Risveglio), sotto cui basta sedersi in pace, abbandonandosi a una percezione istintiva non razionale, per diventare un Buddha, cioè un Risvegliato, che si accorge che il mondo in cui è vissuto fino a quel momento è un’illusione simile a un sogno e che la vera realtà è quella in cui le cose non sono separate e non c’è sofferenza perché non esiste un singolo io che possa soffrire. In pratica accade lo stesso nella dimensione a cui si accede unendosi al Triacanto, anche se nel Buddismo è vista come una condizione di vuoto più che un flusso d’energia onnicomprensiva, visto che lo scopo qui è l’annullamento e non la perpetuazione delle coscienze individuali.

L'Albero della Vita assiro

L'Albero della Vita babilonese


Nei miti biblici e coranici l’Albero della Vita è nel giardino dell’Eden, un altro luogo idilliaco e di riconciliazione non troppo diverso dallo stato beato di chi si riunisce al Triacanto. Il fatto che sia al centro dell’Eden anche l’Albero della Conoscenza del Bene e del Male, che forse è un altro aspetto di quello della Vita ma i cui frutti sono proibiti a chi vive nel giardino, può indicare che le due dimensioni, quella eterna in cui tutte le cose sono unite e riconciliate e quella conflittuale in cui esistono forme distinte e concetti contrapposti, sono condizioni alternative, per cui non si può scegliere l’una senza essere automaticamente estromessi dall’altra.
Insomma chi si nutre dall’Albero del Bene e del Male, o lo vede come tale, rinuncia ai benefici di quello della Vita Eterna e viceversa, cosa che nella dittatoriale mentalità monoteista è stata descritta come una cacciata anziché una libera scelta. È proprio questa scelta che deve compiere Lilith, che guarda caso ha lo stesso nome di colei che, nei miti ebraici, era la prima compagna di Adamo nell’Eden, la donna primordiale che rifiutò di sottomettersi all’autorità maschile e che avendo lasciato l’Eden di sua volontà rimase immortale.

L'Albero della Vita della Cabala ebraica

L'Albero della Vita in due versioni islamiche


Ormai è chiaro che il nome della protagonista della serie non è affatto casuale, non solo per il suo spirito indipendente e aggressivo, ma perché alla fine deve assumersi la responsabilità di prendere una decisione al posto dell’intera Umanità, analoga a quella presa nel mito da Eva, la seconda compagna di Adamo, la scelta se far vivere tutti nel mondo fisico delle separazioni o in quello trascendente della condivisione totale. Ora invece di Eva a scegliere è Lilith, che come la sua antica omonima rifiuta di sottomettersi alle imposizioni.Quanto ai i viticci vegetali spinosi che si diramano dal Triacanto e che nel finale si ingrandiscono sempre più, possono ricordare facilmente, oltre alle contorte ramificazioni di certe versioni islamiche dell’Albero della Vita, anche un altro simbolo associato ad esso in molte tradizioni, quello del serpente. Prima d’essere demonizzato dai monoteisti era spesso considerato un dio o uno spirito amico dell’Uomo, e lo è ancora oggi in molte mitologie orientali, un po’ come il Triacanto che a suo modo avrebbe agito nell’interesse dell’Umanità. Quindi la Lilith avvolta dai viticci serpentini che si vede in copertina non si trova necessariamente in pericolo.

Lilith the Snake, dipinto di Lilian Broca


Tra l’altro tale copertina ricorda vagamente anche certi quadri di artiste recenti come Julie Bell e Lilian Broca, che hanno raffigurato la Lilith del mito nuda tra le spire del serpente, o essa stessa col corpo in parte serpentino, un’altra immagine di cui un equivalente disegnato da Enoch appare all’interno dell’albo.


Lilith, dipinto di Julie Bell

L'Albero della Vita nella finestra di una moschea indiana

L'Albero della Vita, decorazione di una cattedrale cristiana del XII secolo


E il fatto che il serpente, come il simbolo del fiume con esso spesso identificato o associato, rappresenti tra le altre cose anche l’eternità del tempo, il fluire ciclico dell’esistenza, e quindi in un certo senso l’evoluzione, è perfettamente in sintonia col finale della storia. In quest’ultima parte il pregio principale da parte di Enoch è di aver superato, anche grazie a una poetica figurativa non scontata, le ingenuità dualistiche monoteiste, coi loro arroganti giudizi, inferni e paradisi, e almeno in parte anche le altrettanto superficiali concezioni basate su banali reincarnazioni da un singolo corpo all’altro. Entrambe tali idee sono presenti nei miti e culti dell’India, ma nella filosofia del Vedānta di Śankara erano ritenute mere illusioni, buone solo per gli spiriti meno evoluti e subito spazzate via se si riesce a percepisce la vera realtà onnipresente del Bráhman.

Statua di Sankara


L'Albero delle Esperidi in un antico vaso greco

L'albero di Adamo ed Eva in un'incisione di Durer del 1504



L'albero del Triacanto, da Lilith 18, pag. 82

L'Albero dei Filosofi in una miniatura del XVI secolo


In effetti Enoch non si attiene del tutto al pensiero di Śankara e nella sua storia accetta l’idea dei cicli delle rinascite, come fa il Vedānta di filosofi indiani successivi quali Ràmànuja o Madhva, che assecondando le dottrine dei culti popolari e ufficiali coniugarono in modo un po’ contraddittorio l’idea panteistica che tutto sorga dal Bráhman impersonale con quella della trasmigrazione di anime individuali, per giunta sottomesse a un qualche dio supremo personificato, confondendo così il livello dei simboli mitici con quello della realtà.

Foto di Aurobindo da giovane


Ma il modo in cui in questi ultimi episodi di Lilith si ipotizza un futuro ritorno in massa delle anime, dallo stato per così dire del Bráhman condiviso a quello fisico del nostro mondo materiale, che porterebbe a un balzo verso un livello evolutivo superiore, ricorda soprattutto le teorie, in parte debitrici delle idee di Nietzsche, del filosofo e mistico bengalese Aravinda Ghoș, più noto come Aurobindo, vissuto tra ‘800 e ‘900.Anche Aurobindo ipotizzò l’esistenza di una condizione trascendente corrispondente a un Super-sé, o Super-mente, una coscienza universale attraverso la quale, proprio come dovrebbe fare l’Umanità nella storia di Lilith, si potrebbe effettuare un salto evolutivo, un perfezionamento della natura umana nel mondo fisico. Aurobindo ne era così convinto da aver progettato anche la città ideale del futuro, poi realmente fondata in India col nome di Auroville nel 1968, diciotto anni dopo la sua morte, da suoi seguaci di oltre cento paesi diversi. Sarà un caso, ma le disposizioni a spirale della pianta di quella cittadina somigliano un po’ alle spirali con cui Enoch disegna le forme astratte del Triacanto, detto anche spiromorfo. Magari l’Umanità più evoluta che dovrebbe ritornare ad abitare la Terra parallela di Lilith, nel futuro vivrebbe in delle città come questa…

Modellino in scala della cittadina di Auroville


Si può poi notare come l’idea di evoluzione della coscienza sia stata espressa attraverso l’allegoria dell’albero anche in discipline esoteriche come la Cabala, in cui l’Albero della Vita diventa una sorta di percorso astratto che collega il mondo materiale delle esistenze distinte con quello trascendente dell’unità mistica, o come l’Alchimia, in cui il lento perfezionamento interiore è rappresentato dall’Albero dei Filosofi. Ma tali allegorie rappresentano appunto delle vie graduali, da percorrere o far crescere lentamente e con fatica per arrivare allo scopo, mentre il Triacanto di Lilith condurrebbe tutti a un livello evolutivo superiore senza sforzi e quasi istantaneamente, come gli Alberi della Vita mitologici di cui basta mordere un frutto per diventare immortali.



Foto di Aurobindo anziano


In ogni caso, siano ispirate all’Oltre-anima di Emerson, al Super-sé di Aurobindo o ad altro, nel finale di Lilith n°18 le scene concepite da Enoch hanno una raffinata qualità poetica, anche perché si accompagnano a dei versi molto attinenti scritti nel XIII secolo d.C. dal mistico persiano Jalāl al-Dīn Rūmī. Questi fondò in Turchia la confraternita sūfī dei dervisci rotanti, nelle cui danze ritroviamo il tema del movimento circolare, come quello delle spirali, che suggerendo l’idea di una forza centripeta dà l’impressione che ciò che ci circonda si sovrapponga convergendo in un punto, dal molteplice all’unità o viceversa. Infatti anche la dottrina mistica del Sufismo, pur rientrando in un culto monoteista come quello islamico, esprime un’idea della divinità quasi panteista, che nelle poesie di Jalāl al-Dīn Rūmī è spesso paragonata all’oggetto di un appassionato rapporto d’amore, come un’essenza da cui tutte le cose sono compenetrate e in cui tutte le individualità si annullano.

Il poeta e mistico persiano Jalal al-Din Rumi

Per ora nel nostro mondo immaginario di carta ciò che si annulla e ci saluta è la serie di Lilith, e pazienza se non sapremo mai con precisione a quali altre esistenze più evolute, di chissà quale natura, potrebbe andare incontro in futuro l’Umanità di quella Terra parallela. Dopotutto in quasi dieci anni di viaggi avanti e indietro nel tempo, la bella e terribile Lilith ci ha già fatto vivere insieme a lei un discreto numero di vite diverse…

Lilith n. 18, giugno 2017. Disegno di Enoch


Lilith 18
LA FINE DELLA CACCIA
Testi e disegni: Luca Enoch
Formato: 128 pagine in bianco e nero
Editore: Bonelli
Data di uscita: Giugno 2017
Prezzo: € 4,00


Andrea Cantucci

N.B. Trovate i link alle altre recensioni bonelliane sul Giorno del Giudizio!

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