sabato 6 febbraio 2016

L'ANGOLO DEL BONELLIDE (XXII): DK (ovvero, Dal bonellide al comic booK)

di Andrea Cantucci

DK n. 1, cap. 1 pag 6-7 (Astorina, 2015)
 
Il 1° Febbraio 2016 esce in edicola il quarto e (per ora) ultimo numero della miniserie DK – Prima Stagione dell’editrice Astorina. Non è una serie bonellide ma in formato comic book, ovvero lo stesso degli albi americani, noto in Italia come formato Albo d’Oro - dal nome della collana di Mondadori che lo adottò nel 1946. DK, che poi sarebbe una versione alternativa di Diabolik, non è però nato direttamente in questo formato. Nell’aprile 2013 una versione ancora incompleta della stessa storia, dopo un’anteprima in volume cartonato, era apparsa in formato bonellide nella collana Il Grande Diabolik e in quell’occasione il titolo, evidentemente provvisorio e a dire il vero un po’ contorto, era DK – Io so chi non sono

Diabolik anno VII n. 5,  pag. 58 (Astorina, 1968)

 
La scelta dell’editore, ai limiti della scorrettezza verso i lettori, di pubblicare una storia e dopo poco più di un paio d’anni ristamparla con un centinaio di pagine in più, tra capitoli aggiunti e doppie splash pages, si spiega con la comprensibile prudenza di chi sta proponendo al pubblico una nuova versione di un famoso personaggio, per di più rivoluzionandone grafica e formato rispetto alla tradizione. Ecco quindi che Astorina ha preferito saggiare il gradimento dei lettori prima con un volume intitolato DK – Work in Progress uscito nel 2012, in cui la storia era ancora ampiamente incompleta, e poi stampandola nel già collaudato formato bonellide, che anche Diabolik ha adottato da tempo per gli speciali semestrali. Anche nel rassicurante volumetto in stile bonellide però, alcune novità rispetto agli altri numeri de Il Grande Diabolik già c’erano. 


DK - Work in Progress (Astorina, 2012)

 
A parte i contenuti della storia, che vede agire delle versioni diverse e prive di un nome preciso di Diabolik, Ginko e Eva Kant, si è trattato del solo numero della serie speciale stampato direttamente a colori e con un’impaginazione ancora più lontana del solito dalle convenzioni della grafica abituale. Per meglio dire, l’impaginazione di DK è più vicina alle convenzioni di un’altra scuola di fumetto, quella americana appunto, che da molti decenni, ovvero almeno dagli anni ’60, ha quasi del tutto abbandonato il montaggio a strisce omogenee per usare una grafica più libera, con vignette di diversa altezza che s’incastrano o si sovrappongono in modi diversi a ogni pagina. Questo dal punto di vista di tanti disegnatori presenta degli innegabili vantaggi, poiché permette di comporre le pagine conferendo a ogni immagine la forma ideale o più utile per rappresentarla, dosando gli spazi e integrando tra loro le figure in modo più creativo, il ché spesso può significare anche una maggiore spettacolarità e dinamismo. Uno tra i primi in Italia a sfruttare appieno le potenzialità espressive di questa impostazione grafica, fu dagli anni ’60 Guido Crepax.

Neutron di Crepax, da un supplemento di Linus (1967)

 
D’altra parte ci sono autori che, pur avendo avuto a un certo punto la possibilità prendersi la più completa libertà grafica, hanno invece preferito continuare a restare ancorati alle strisce di altezza regolare, se non addirittura a vignette di dimensioni perfettamente costanti, in modo da privilegiare la leggibilità del racconto rispetto alla potenziale maggior enfasi visuale offerta da un’impaginazione più varia. In tali casi si predilige la stabilità di una cornice sempre uguale, come uno schermo cinematografico, che non distragga dalla storia con virtuosismi grafici. E non si tratta necessariamente di disegnatori meno validi, ma anche di indiscussi artisti del fumetto come Hugo Pratt, Magnus, Jacques Tardi, Milo Manara o Art Spiegelman. In particolare il francese Tardi usa spesso per le sue storie di impegno civile, antimilitariste, noir, o comunque di un certo spessore letterario, un’impaginazione su tre strisce abbastanza simile a quella bonelliana.

Era La Guerra Delle Trincee, di Jacques Tardi (1993)

Dunque quale è la scelta grafica migliore? Quella all’italiana con strisce o vignette omogenee, o quella a incastro all’americana come usa anche DK? Per non parlare degli album in stile franco-belga, in origine basati su pagine a quattro strisce ma oggi realizzati con ampia libertà grafica, o dei fumetti giapponesi, per molti versi graficamente ancora più liberi di quelli americani o francesi e che a volte li hanno influenzati, con l’uso di vignette lunghe e strette in verticale, o inclinate, o che escono fuori dai margini, ecc.
La risposta dipende dai gusti, non solo degli autori ma anche dei lettori, che a seconda delle proprie abitudini visive e di ciò che cercano in un albo a fumetti, scelgono e premiano l’uno o l’altro tipo di pubblicazione. Ci sono quelli che non sopportano o non riescono a leggere un fumetto dall’impaginazione appena un po’ più libera del solito e quelli che, di fronte a una pagina a strisce regolari tutte uguali, finiscono per annoiarsi mortalmente. L’ideale sarebbe essere capaci di apprezzare entrambe le forme di fumetto, poiché come hanno dimostrato geniacci del calibro di Alan Moore e Frank Miller, quando l’autore è davvero cosciente del linguaggio grafico che usa, possono essere ambedue funzionali alla realizzazione di autentici capolavori.

V for Vendetta, di Moore e Lloyd (1989)

Ovviamente ciò che più importa è il contenuto della storia, che se il fumetto fosse davvero considerato un’arte a tutti gli effetti, dovrebbe essere il primo elemento di cui tener conto e su cui basare le libere scelte degli autori per rappresentare graficamente ciò che intendono raccontare nel modo migliore. Invece spesso, per timore di perdere in leggibilità o al contrario in spettacolarità, rischiando di perdere di conseguenza dei potenziali lettori, sono gli editori a imporre ai disegnatori il tipo di grafica a cui attenersi. In tali casi il disegnatore deve dimostrare ciò che sa fare sfruttando i limiti impostigli a proprio vantaggio.
In quest’ottica, anche un’iniziativa come DK non ha in sé molto di artistico, nonostante la professionalità dei testi di Gomboli e Faraci, la bravura di un ottimo disegnatore come Giuseppe Palumbo e l’innegabile qualità espressiva delle copertine di Matteo Buffagni, poiché si tratta in fondo solo del passaggio da una forma commerciale a un’altra. Ma tale operazione può comunque essere utilissima, se riuscirà ad aprire la strada anche nel mercato italiano mainstream alla possibilità di realizzare storie in forme diverse dalle abituali.
È vero che l’inventiva e l’arte autentica di certi autori possono riuscire a infiltrarsi dovunque, ma più varietà di formati e di forme grafiche esiste, meglio è per la vitalità del fumetto di un paese e maggiori possibilità hanno i suoi personaggi e le sue storie di essere poi proposti anche all’estero. Tanto più che, ai puristi che storcessero il naso di fronte a un Diabolik all’americana, l’Astorina garantisce che questa variante non prenderà mai il posto dell’originale, il cui albo continuerà a uscire regolarmente nel solito formato.

Storia del West di D'Antonio, da Collana Rodeo n. 100 (Cepim, 1975)

Questo dell’albo a colori all’americana è comunque solo l’ultimo passo di un percorso che, nell’arco degli ultimi quarant’anni, ha portato il fumetto italiano in formato bonellide a distaccarsi almeno parzialmente dalla sua tradizionale grafica omogenea, anche se finora si è trattato per lo più di libertà che si sono prese singoli disegnatori particolarmente originali, a cui evidentemente la gabbia delle tre strisce andava un po’ stretta.
Uno dei primi era stato Gino D’Antonio, che con la sua Storia del West, negli anni ’70, periodo in cui le storie non erano più realizzate prima in formato a striscia ma uscivano direttamente in quello allora detto gigante, iniziò a usare vignette scontornate e in cui cornici e figure debordavano spesso verso l’alto o il basso. Venuto meno il limite obbligato delle strisce, le vignette iniziarono inoltre a raddoppiare di dimensioni non solo in orizzontale ma anche in verticale, come accadeva da decenni in fumetti di altri editori. D’Antonio introdusse anche l’idea di affiancare a una vignetta di altezza doppia non due ma tre vignette piccole, poi usata spesso da Berardi su Ken Parker, e in qualche caso giunse a perdere ogni riferimento alle tre strisce canoniche.
Con la Storia del West si confermò anche la possibilità di usare grandi vignette in apertura, inaugurata nel formato bonelliano a metà anni ’60 sugli albi de Il Comandante Mark ma comuni da tempo su altri fumetti, come quelli disneyani o i tascabili neri, a imitazione delle splash page introdotte negli USA intorno al 1940.

Bella & Bronco n. 1 (Daim Press, 1984)

Anche in un’altra serie scritta e disegnata da D’Antonio come Bella & Bronco, pubblicata dalla Bonelli tra il 1984 e il 1985 in un formato più grande e con meno pagine quasi all’americana, l’autore si prese qualche libertà grafica simile, ma sempre ritornando costantemente alle tipiche tre strisce per pagina.
Del resto perfino Aurelio Galleppini su Tex, all’inizio degli anni ’70, aveva realizzato una singola storia dalla grafica un po’ più libera del solito, Gli Sterminatori, in cui per una volta il formato delle immagini varia anche in altezza e molte vignette si incastrano tra loro tagliando via qua e là gli angoli delle cornici rettangolari.


Gli Sterminatori, di Bonelli e Galep, da Tex - Collezione Storica A Colori n. 60 (2008)

Iniziava a verificarsi cioè, ma in modo molto limitato e solo per due disegnatori tra i più esperti e importanti, quello che era successo negli USA tra gli anni ’50 e ’60, quando autori come Carmine Infantino, Joe Kubert o Gil Kane cominciarono a prendersi delle libertà sempre maggiori rispetto alla gabbia a strisce che anche da loro era più o meno la norma, poiché tanto il classico formato americano che quello italiano alla Bonelli erano nati dal montaggio in verticale di singole strisce, che negli USA uscivano una al giorno sui quotidiani e in Italia in albetti settimanali. Negli Stati Uniti, l’esigenza di superare definitivamente le strisce coincise con l’apparizione di una nuova generazione di super-eroi, per cui i disegnatori dovettero porsi il problema di rappresentare al meglio la supervelocità dell’uno, la capacità di volare a grandi altezze dell’altro o la vastità dello spazio in cui agiva un altro ancora, finendo così per differenziare sempre di più la grafica delle pagine.

The Flash n.106, di Kanigher e Infantino (DC, 1959)


Captain America n. 9 di Simon e Kirby (Timely, 1941)

Un caso opposto fu quello di Jack Kirby, che a inizio anni ’40 era stato tra gli inventori di soluzioni grafiche originali, come la splash page su due facciate. In quel periodo molte storie di supereroi, pur essendo ancora caratterizzate da una struttura grafica regolare, che nel caso di Kirby era di solito a otto vignette su quattro strisce, sperimentavano già dei modi fantasiosi di delineare i contorni e di incastrare le figure nella pagina.
Ma a fine anni ‘50, mentre altri disegnatori americani iniziavano a sviluppare grafiche a incastro sempre più libere, Kirby al contrario passò gradualmente a strutture grafiche sempre più regolari, fino a limitarsi a due soli tipi di impaginazione dalle cornici omogenee, con sei vignette su tre strisce o con quattro vignette su due strisce, salvo intervallarle ogni tanto con le sue tipiche splash page. Nonostante ciò le sue pagine risultavano le più potenti e dinamiche di tutte, grazie solo alla forza espressiva delle sue immagini piene di movimento.

Challengers of the Unknown di Jack Kirby, da Showcase n. 6 (DC, 1957)

Donald Duck di Barks, da Four Color n. 300 (Dell, 1950)

Sul fronte degli albi umoristici, un altro grande autore come Carl Barks, sperimentò per breve tempo l’uso di grafiche a incastro tra gli anni ’40 e ’50, mentre coinvolgeva il suo Donald Duck in scene movimentate in cui tali accorgimenti erano funzionali. Ma poi tornò definitivamente a usare pagine a quattro strisce regolari, mentre con le sue storie di Uncle Scrooge si concentrava sempre più su elaborate narrazioni avventurose di ampio respiro, in cui troppi virtuosismi grafici avrebbero potuto rischiare di costituire delle inutili distrazioni.
Anche uno dei più grandi maestri della grafica a incastro all’americana come Joe Kubert, in vecchiaia ritornò a usare di nuovo dopo molti anni le classiche tre strisce per pagina su invito di Sergio Bonelli, disegnando per lui un albo gigante di Tex, dopo averne realizzate le prime pagine in stile comic book. Essendosi a quanto pare convinto in quell’occasione che anche la grafica a strisce può avere una certa efficacia, Kubert riutilizzò poi spesso delle vignette omogenee anche in altre storie da lui disegnate negli USA subito dopo, come un albo speciale del Sgt. Rock o il graphic novel d’ambientazione metropolitana Jew Gangster.
Come si vede quindi, le “conversioni grafiche” dei disegnatori possono avvenire nei due sensi.

Tex Speciale n. 15, di Nizzi e Kubert (SBE, 2001)

Sgt. Rock - Between Hell & a Hard Place, di Azzarello e Kubert (DC, 2003)

Tornando agli albi italiani degli anni ’70, anche sui primi numeri della serie della Bonelli dedicata ad Akim nel 1976 la grafica si differenziava dalle abituali strisce omogenee, basandosi invece su incastri piuttosto liberi, tra l’altro con abbondanza di vignette rotonde, anche se il numero di vignette era in genere di cinque o sei a pagina come sugli altri albi Bonelli. In fatto è che si trattava di storie pubblicate originariamente in Francia dalle Editions des Aventures e Voyages, direttamente in formato verticale. Quindi anche per il primo numero, realizzato appositamente per Bonelli dagli autori Roberto Renzi e Augusto Pedrazza e in cui si riassumevano le origini del personaggio, fu adottata una grafica libera del tutto analoga a quella delle pagine successive. 
Tavaola tratta da Akim n.1 (1976) - disegni di Augusto Pedrazza
Anche qualche altra singola storia inedita pubblicata sulla Collana Rodeo alla fine degli anni '70 godette di una libertà grafica molto maggiore del solito, essendo stata realizzata direttamente in formato bonelliano da disegnatori dotati di una certa inventiva, come Antonio Canale o Luigi Corteggi. Quest’ultimo disegnò sul numero 159 di Collana Rodeo una storia di fantascienza intitolata L’Astronave Perduta, in cui, dimezzando l’altezza di alcune vignette orizzontali, adottava soluzioni grafiche non troppo diverse da quelle che oltre dieci anni dopo sarebbero diventate tipiche degli albi di Nathan Never.

L'Astronave Perduta, di Pezzin e Corteggi, da Collana Rodeo n. 159 (Cepim, 1980)

Canale invece sul numero 121 disegnò con una grafica particolarmente libera la storia Terra Maledetta, una delle prime scritte per Bonelli da Giancarlo Berardi, in cui già si intravedevano il modo revisionista di trattare il mondo della frontiera americana che avrebbe poi preso forma definitiva nelle sue storie di Ken Parker. 

Terra Maledetta, di Berardi e Canale, da Collana Rodeo n. 121 (Cepim, 1977)


Ken Parker n. 4 di Berardi e Milazzo -  pag. 1 (Cepim, 1977)

Ken Parker n. 4 di Berardi e Milazzo pagg. 28-29 (Cepim, 1977)

 
Anche sui primi albi di Ken Parker, pensato inizialmente per apparire proprio sulla Collana Rodeo, Giancarlo Berardi e Ivo Milazzo si presero alcune piccole libertà grafiche, simili a quelle usate da D’Antonio ma ancor meno frequenti. Col tempo gli autori finirono però per rientrare nella più classica norma delle strisce bonelliane, limitandosi a portare avanti quelle innovazioni grafiche erano risultate più efficaci, come gli inserti in orizzontale che comprimono il tempo fondendo più immagini in una, o le dissolvenze a fine scena ottenute con campi lunghi scontornati. Per il resto la loro la loro principale innovazione più che nella grafica consistette nell’uso di un linguaggio sempre più cinematografico, eliminando del tutto le didascalie e le nuvolette coi pensieri dei personaggi. Tra gli iniziali esperimenti grafici apparsi su Ken Parker, si può comunque ricordare, nel n. 4, una prima pagina con tre vignette sovrapposte in un’unica composizione e quella che dovrebbe essere la prima splash page doppia mai pubblicata su un albo della Bonelli.

Dylan Dog n. 10, di Sclavi e Casertano (SBE, 1987)

Dylan Dog n. 20, di Castelli e Roi (SBE, 1988)

Su Dylan Dog a fine anni ’80 arrivarono altre innovazioni grafiche, a volte destinate a imporsi anche su altre serie, come le pagine con una striscia normale e una di altezza doppia usate da Giampiero Casertano nel n. 10, o quelle di due strisce di tre vignette l’una, spesso usate in particolare da Giovanni Freghieri.
Altre volte si è trattato di esperimenti più saltuari ed effimeri, come i flashback con immagini scontornate disegnati su Dylan Dog n. 20 da Corrado Roi, un raffinatissimo artista che, dopo aver dimostrato le sue capacità di innovazione anche grafiche, ha poi finito per essere ricondotto alla norma delle tre strisce.

Dylan Dog Albo Gigante n. 9 di Wood e Freghieri (SBE, 2000)

Nathan Never n. 5, di Medda e Toffanetti (SBE, 1991)

Ma è all’inizio degli anni ‘90 su Nathan Never che gli autori Medda, Serra e Vigna chiesero a Bonelli di potersi allontanare un po’ di più dalla gabbia grafica abituale, per citare soluzioni tipiche della produzione americana e giapponese che, data l’ambientazione fantascientifica della serie, costituivano degli inevitabili punti di riferimento. Fin dall’inizio la filosofia grafica di Nathan Never fu di concedere ai disegnatori di comporre le pagine in modo un po’ più libero. Si videro così uscire nettamente dagli schemi bonelliani le sequenze di vari disegnatori come Roberto De Angelis, Claudio Castellini, Romeo Toffanetti, Nicola Mari o Dante Bastianoni.

Nathan Never n. 23, di Serra e Bastianoni (SBE, 1993)

Nathan Never n. 26, di Medda e Mari (SBE, 1993)

Nathan Never n. 29 di Vigna e Casini (SBE, 1993)

Uno degli autori che sfruttò di più questa possibilità allo scopo di creare degli effetti dinamici fu Stefano Casini e il massimo della sperimentazione grafica concessa su un albo Bonelli degli anni ’90 fu raggiunto con la storia L’Ultima Onda, da lui disegnata sul n°29 di Nathan Never. Dopodichè anche allo staff di questa serie fu chiesto di fare marcia indietro in nome della leggibilità e della tradizione, ma solo parzialmente. Infatti certe soluzioni grafiche adottate su Nathan Never, come le quattro strisce di una vignetta ognuna usate fin dalla prima pagina del numero uno, finirono per diventare di uso comune anche su altre serie.

Napoleone n. 53, di Paolo Bacilieri (SBE, 2006)















Maxi Dampyr n. 2, di Cajelli e Baggi (SBE, 2010)



Anche altri autori che lavorano per la Bonelli, ma che al pari dei vari D’Antonio o Roi si sono fatti le ossa su formati diversi, come Paolo Bacilieri sugli albi di Napoleone o Alessandro Baggi su Dampyr, si sono presi in più occasioni delle ampie libertà sullo schema delle tre strisce, pur facendovi comunque sempre riferimento.
Bacilieri ha spesso frammentato la tavola in immagini più piccole del solito, in sintonia col suo particolare stile, poco realistico ma preciso e meticoloso, che ricorda certi fumetti underground. Naturalmente ha potuto prendersi maggiori libertà grafiche soprattutto quando è stato lui stesso a scriversi da solo i testi delle storie.
Baggi invece sembra ispirarsi ad autori americani un po’ più mainstream, legati ad ambiti horror o anche supereroistici, come Jack Kirby o Rick Veitch, quindi nelle sue storie tende soprattutto ad ampliare le vignette raddoppiandone il formato, a volte fino a occupare tutta l’altezza della pagina. Alterna inoltre queste pagine dalla grafica più libera ad altre regolari, la cui precisa gabbia a vignette del tutto omogenee richiama subito alla mente le storie di Kirby, dato lo stile dei disegni e il tipo di aggressivi mostri rappresentati.

Hammer n. 1, di Febbrari e Majo (Star Comics, 1995)

Altri editori, come Star Comics, Panini o Free Books, hanno prodotto vari albi in formato bonellide ma dalle impaginazioni più libere, a volte decisamente all’americana, anche se spesso senza riscuotere abbastanza successo da permetterne la prosecuzione, come nel caso di due serie di fantascienza dalla grafica curata e interessante come Hammer, pubblicata dalla Star tra il 1995 e il 1996 e riproposta nel 2014 da Mondadori in formato più grande, e Arkhain, edita da Panini nel 2002. Entrambe tentavano di proporre un tipo di science fiction complessa, senza più riferirsi a un singolo protagonista equivalente all’eroico investigatore di turno.

Arkhain n. 1, di Calza e Raffaele (Panini, 2000)

Sporadici esperimenti grafici un po’ più naif sono apparsi in una lunga serie che ha avuto maggior fortuna, scritta da Lorenzo Bartoli e Roberto Recchioni e pubblicata dall’Eura in formato bonellide dal 2003, ovvero John Doe, in cui la gabbia grafica più usata rimaneva però sempre quella classica a sei vignette omogenee.
Può darsi che il successo di John Doe fosse dovuto anche alla scelta di unire storie piuttosto originali con una relativa semplicità grafica, praticamente mantenuta per tutta la serie pur con saltuarie sperimentazioni, che risultavano maggiormente ad effetto proprio perché intervenivano a spezzare una gabbia regolare. In questo modo anche i racconti più stravaganti risultavano comunque facilmente leggibili e chiari per i lettori.

John Doe n. 3, di Bartoli, Recchioni e Manunta (Eura, 2003)

Ci si sarebbe infatti potuti aspettare che ai disegnatori di John Doe fosse lasciata maggiore libertà grafica rispetto ai canoni bonelliani, visto che l’Eura ne concedeva molta di più nelle storie che pubblicava su Lanciostory e Skorpio. Del resto la più totale libertà di composizione è una caratteristica comune negli albi pubblicati dall’Eura in formato bonellide ma realizzati da disegnatori argentini, come Dago e Martin Hel. 

Martin Hel anno XIII n. 3 di Barron e Fernandez (Eura, 2007)

 
Riguardo poi a un personaggio classico come Tex, mentre Sergio Bonelli anche in occasioni speciali come gli albi giganti annuali insisteva coi disegnatori di scuole fumettistiche diverse perché si adeguassero alla tradizionale grafica su tre strisce della sua casa editrice, sembra che l’attuale gestione del figlio Davide lasci più spazio a saltuari volumi dall’impaginazione più libera, se non all’americana almeno alla francese. 

Tex - L'Eroe e la Leggenda, di Paolo Eleuteri Serpieri, pag 47 (SBE, 2015)

Tex - Frontera!, di Boselli e Alberti, pag. 15 (SBE, 2015)

 
Lo si è visto con i due album cartonati di grande formato di Tex usciti nel 2015 e disegnati rispettivamente da Paolo Eleuteri Serpieri e da Mario Alberti. Se il primo, L’Eroe e la Leggenda, è caratterizzato da ampie vignette dall’impaginazione del tutto libera, la struttura grafica del secondo, intitolato Frontera!, è più vicina a quella franco-belga su quattro strisce. Nelle intenzioni dell’editore dovrebbero inaugurare una nuova serie di speciali texiani, per la prima volta fuori dagli schemi anche e soprattutto dal punto di vista grafico.
L’adeguamento di alcuni dei personaggi Bonelli a un formato album analogo a quello franco-belga era già stato sperimentato con la pubblicazione su rivista di alcune storie inedite a colori di Ken Parker, Martin Mystère, Dylan Dog, Nathan Never e Tex, per lo più uscite su Comic Art tra gli anni ’80 e ’90. In quasi tutte quelle occasioni però, l’impaginazione non si discostò molto da quella solita bonelliana a tre strisce.

Dylan Dog - Gli Inquilini Arcani, di Sclavi e Roi, da Comic Art n. 63 (1990)

Nathan Never - Luna, di Vigna e Castellini, da Comic Art (1991)

 
Solo il racconto di Dylan Dog in tre parti Gli Inquilini Arcani fu realizzato per l’occasione da Tiziano Sclavi e Corrado Roi in pagine di quattro strisce omogenee, come nella scuola francofona più classica. Invece le due storie di Nathan Never disegnate su Comic Art da Claudio Castellini, nella grafica non differirono troppo dalla serie mensile, benché con variazioni di struttura più frequenti rispetto alla gabbia base a tre strisce.
Impaginazioni ben più libere ha poi messo in atto Castellini una volta passato a disegnare in pianta stabile per la Marvel, per la quale ha realizzato storie di famosi personaggi americani come Silver Surfer, Conan o Spider-Man, usando anche immagini prive di contorni e sovrapposte, in pratica del tutto prive di schemi fissi, segno che era quella l’impostazione grafica a cui aspirava, che piaccia o meno agli appassionati bonelliani.

Peter Parker Spider-Man n. 77 di Mackie e Castellini (Marvel, 1997)

Valkiria di Nicieza e Rinaldi, da Marvel Comics Presents n. 168 (1994)

X-Factor n. 117, pag. 14, di Mackie e Raffaele (Marvel, 1995)


Negli anni ’90 passarono a lavorare per la Marvel anche altri due disegnatori visti in Italia su Nathan Never come Pino Rinaldi e Dante Bastianoni, così come l’ex disegnatore di Lazarus Ledd Stefano Raffaele, anche se spesso lo stile di quest’ultimo è stato un po’ sacrificato da inchiostratori poco in sintonia con il suo tratto.
La presenza attuale di molti altri disegnatori italiani che lavorano direttamente per il mercato USA, come Simone Bianchi, Gabriele Dell’Otto, Carmine Di Giandomenico, Francesco Francavilla o Sara Pichelli, dimostra che i nostri autori possono realizzare senza problemi storie impaginate in modo molto diverso dalla propria scuola nazionale, poiché chi è cresciuto leggendo albi americani finisce per conoscerne abbastanza bene il linguaggio grafico. Solo alcuni di loro sembrano meno a loro agio con le pagine a incastro, come Riccardo Burchielli, che anche quando disegna albi americani spesso torna a usare le abituali tre strisce all’italiana.

Conan the Barbarian n. 23 di Wood e Burchielli (Dark Horse, 2013)

Tra i più interessanti disegnatori italiani che lavorano per l’americana DC Comics, benché forse non ancora valorizzato come merita, si può citare anche Andrea Sorrentino, autore di un bel ciclo di Green Arrow (Freccia Verde) tra il 2013 e il 2014. Il suo stile iperrealista alla Jae Lee si sposa con esperimenti grafici estremamente originali e precisi, in cui scompone e ricompone i dettagli delle immagini creando degli effetti di notevole fascino e mai gratuiti, ma sempre in funzione di precise esigenze narrative. Abbiamo insomma in Italia degli ottimi artisti che a volte i nostri editori si lasciano sfuggire, forse anche per l’impostazione grafica un po’ rigida dei nostri albi, non sempre in grado di soddisfarne appieno tutte le aspirazioni espressive.

Green Arrow n. 24, di Lemire e Sorrentino (DC, 2013)

Il Grande Diabolik n. 1 - 2013, pag. 149 (Astorina)


Tra gli autori italiani che, pur lavorando anche nel formato bonellide, usano spesso una grafica molto libera non necessariamente legata alle abituali strisce omogenee, c’è anche il disegnatore di una di quelle storie a colori di Martin Mystère che uscirono a suo tempo su Comic Art, cioè Giuseppe Palumbo. Questi per fortuna ha sempre continuato a lavorare per il mercato italiano e da oltre dodici anni è il responsabile delle immagini de Il Grande Diabolik primaverile, dedicato alle avventure giovanili dell’antieroe creato dalle sorelle Giussani.
Era naturale che fossero affidati a Palumbo anche i disegni in stile pseudo-americano della serie DK. Tra le sue principali ispirazioni ci sono infatti i super-eroi Marvel degli anni ’60, tanto che in una storia del 1990 del suo super-eroe masochista Ramarro ha citato una delle scene più famose della saga di Capitan America.

Ramarro - Dies Irae, di Giuseppe Palumbo - pag. 6, da Frigidaire n. 111 (1990)

DK n.1, cap. 2 pag. 1 (Astorina, 2015)

DK n. 1, cap. 3 pag. 7 (Astorina, 2015)
In DK quindi i disegni di Palumbo funzionano benissimo, la nuova versione del personaggio agisce in scene così dinamiche come in Diabolik non si erano mai viste, con ardite deformazioni anatomiche, abbondanza di linee cinetiche e sovrapposizioni di efficaci ed eclatanti onomatopee, proprio come in un albo americano.
Tutto ciò alla fine corrisponde a una rielaborazione più che altro visiva, quindi se vogliamo anche abbastanza superficiale, ma non si può negare che in questo modo i disegni appaiano ben più coinvolgenti rispetto a quelli a volte davvero un po’ statici e in stile fotoromanzo tipici dei tascabili all’italiana nati con Diabolik.
Si dimostra così che, con qualche aggiustamento grafico che lo renda appetibile anche a un pubblico diverso, un personaggio alla Diabolik non ha proprio nulla da invidiare ai pezzi grossi del fumetto d’oltreoceano.


DK n. 1, cap. 3 pag. 14 (Astorina, 2015)

Va detto anche però che in DK le figure appaiono un po’ più sintetiche rispetto alle ricercate raffinatezze a cui Palumbo ci aveva abituato in passato su Il Grande Diabolik. Inoltre i colori piuttosto piatti non valorizzano molto le immagini, rifacendosi a uno stile di colore quasi uniforme che richiama i fumetti americani di una volta ma oggi è abbastanza superato dalle sfumature digitali ben più elaborate degli albi di super-eroi attuali.
Lascia interdetti il fatto che, proprio mentre il formato di un simil Diabolik viene così ingrandito, non solo i disegni si facciano più semplici, almeno rispetto alle capacità di un Palumbo, ma anche i caratteri dei testi siano di dimensioni molto grandi rispetto agli standard di qualunque albo americano, cosicché le nuvolette, di conseguenza più ingombranti del necessario, in certi punti portano via davvero molto spazio alle immagini.
Si tratta di dettagli stilistici che potrebbero essere rivisti facilmente, forse dovuti alla scarsa dimestichezza con un formato che per la produzione italiana non si usa più da molto tempo, ovvero più o meno dagli anni ’60, in cui uscivano ancora in queste dimensioni delle serie nostrane come quella di Kansas Kid.
Quello che allora da noi si chiamava formato Albo d’Oro era più comune tra i fumetti italiani degli anni ’50, in cui a imitazione degli albi americani uscivano in queste dimensioni serie come Pecos Bill, Albi Salgari o Akim.

Rin Tin Tin & Rusty n. 79 (Cenisio, 1967)

In seguito il formato comic book continuò a essere usato dagli autori italiani prevalentemente per personaggi d’origine statunitense. Per esempio dal 1960 fu pubblicato a lungo l’albo Rin Tin Tin & Rusty, che conteneva molte storie prodotte per il mercato francese ma realizzate dagli italiani Luigi Grecchi ed Ennio Missaglia per i testi e Carlo Marcello e Vladimiro Missaglia per i disegni. Infatti l’esigua quantità di episodi di Rin Tin Tin pubblicati negli USA dalla Dell era insufficiente a soddisfare la richiesta dei lettori europei, dato il successo che avevano avuto anche da noi i telefilm degli anni ’50 col discendente del famoso cane divo del muto.
La stessa cosa accadeva per eroi come Mandrake o Phantom, che dal 1972 furono protagonisti a loro volta di collane italiane in formato comic book, inizialmente realizzate in buona parte da autori nostrani. In questi ultimi albi, così come in quelli di Pecos Bill, dimensioni a parte, la grafica era la solita delle strisce, dato che all’epoca questa era ancora relativamente comune anche negli Stati Uniti, mentre su Rin Tin Tin i disegnatori si presero delle maggiori libertà nella composizione delle pagine, usando spesso anche cornici inclinate.

DK n. 2, cap. 4 pag. 17 (Astorina, 2015)

Con DK, dato lo stretto legame con un personaggio di grande successo, ci sarebbe in effetti la possibilità di imporre di nuovo un formato che da noi è caduto in disuso da decenni per quanto riguarda la produzione nazionale, ma che è invece del tutto abituale per chi legge le edizioni italiane degli albi americani.
Vedremo se questa iniziativa avrà più successo di quelle collane che in anni recenti hanno adottato una grafica all’americana senza rinunciare al formato bonellide in bianco e nero, come fece qualche anno fa la Free Books con Desdy Metus. Se a questa prima miniserie di DK ne seguiranno altre, vorrà dire che il prodotto ha trovato un suo pubblico, che sia o meno quello già abituato a questo tipo di divisione in episodi.
Anche la scansione narrativa della storia infatti in DK segue lo stesso andamento degli albi americani, in cui, dato le poche pagine a disposizione, ogni racconto lungo o ciclo è diviso in capitoli di una ventina di pagine o poco più. Nel caso di DK i capitoli erano di venti pagine sul bonellide e sono di ventidue sugli albi formato comic book che ne contengono tre alla volta, a causa dell’aggiunta in ognuno di un paginone doppio che non fa progredire la trama più di tanto, ma sottolinea un momento della storia conferendogli maggior enfasi.

DK n. 2, cap. 5 pag. 16 (Astorina, 2015)
Dal punto di vista dei soggetti e delle sceneggiature, questi restano più o meno nell’ambito del feuilleton d’azione come il vecchio Diabolik, aggiungendovi il ritmo più serrato e concitato tipico dei fumetti e dei film americani di oggi. Si può semmai notare la furbizia editoriale di aver voluto inventare un personaggio nuovo mantenendolo strettamente legato all’iconografia di un antieroe famosissimo, così da garantirsi in partenza l’interesse una discreta base di pubblico. Si direbbe che gli autori abbiano fatto tesoro dei tanti esempi che vengono dagli USA, in cui eroi iconici come Superman o Batman sono stati oggetto di una gran quantità di versioni alternative, un’idea in Italia non molto usata se non per le versioni parodistiche degli eroi Disney.
Ma benché il personaggio sia un altro, i punti di contatto con Diabolik non mancano, come nel capitolo sette in cui DK e l’Ispettore sono imprigionati insieme. In quel punto si cita una delle scene più famose della saga di Diabolik, quella in cui Ginko chiede al suo arcinemico chi è, solo che qui la domanda non ottiene alcuna risposta al di là della laconica frase “Io non so chi sono”, che fu pronunciata in quella stessa situazione anche da Diabolik. Insomma ancor più che nella serie classica non si sa nulla del passato di DK, che nella storia non è chiamato ne con questo né con altri nomi precisi. E lo stesso vale per gli altri comprimari. 

DK n. 2, cap. 6 pag. 16 (Astorina, 2015)

 
Se quello che era Ginko diventa qui semplicemente l’Ispettore, ma mantiene più o meno il suo ruolo, colei che ha l’aspetto di Eva Kant non è più l’alleata e amante del criminale protagonista come nella serie normale, ma assume il ruolo di una giudice, segretamente a capo di una specie di setta denominata i Giustizieri, che vuole punire anche con mezzi illegali quei criminali altolocati che la legge non è in grado di raggiungere.
Chissà che le polemiche degli ultimi tempi sull’operato della magistratura non abbiano influenzato in qualche modo gli autori. In ogni caso questo spunto è interessante, anche perché la Giudice e gli altri Giustizieri indossano vesti e cappucci simili a quelli che indossava nei romanzi Fantomas, il principale archetipo letterario a cui si è direttamente ispirato Diabolik, solo che in DK i cappucci sono bianchi anziché neri.
Si tratta in effetti di due diverse interpretazioni dell’archetipo del tipico superuomo letterario, che con le sue azioni si pone al di sopra di leggi o morali comuni, agendo per motivi ideali nel caso dei Giustizieri vestiti di bianco o per soddisfare il proprio interesse egoistico nel caso dei nerovestiti Fantomas e Diabolik.
Lo stesso vale per il protagonista di DK, che non sembra avere di per sé nessun nome, anche se una pantera nera imbalsamata, simile a quella da cui Diabolik aveva preso il suo, fa bella mostra di sé all’inizio del quarto capitolo, sul secondo albo della serie. In origine DK era semplicemente la sigla sintetica convenzionale per dire Diabolik nei soggetti e nelle sceneggiature a uso interno dell’Astorina, ma nella serie con questo nome non c’è nulla che associ le due lettere al personaggio, che rimane principalmente un misterioso ladro senza scrupoli a cui non interessa mettersi in mostra o spaventare il prossimo e che preferisce agire nell’ombra.

DK n. 1. cap. 3 pag. 13 (Astorina, 2015)

Sull’albo bonellide del 2013, l’unico soprannome attribuito a DK era il Re del Terrore, dal titolo del primo episodio di Diabolik in cui pubblico e giornali così definivano l’inafferrabile criminale. Nella miniserie formato comic book si è invece preferito sostituire quest’espressione, considerata troppo altisonante e poco attinente alla psicologia del nuovo personaggio, con un appellativo più vago e discreto come l’Ombra della Notte.
Per certi versi è un peccato visto che, se davvero si spera di proporre questa serie anche negli USA o comunque all’estero, una traduzione pressoché letterale del nome il Re del Terrore poteva anche essere Dread King, che guarda caso avrebbe avuto proprio le iniziali DK, salvando così capra e cavoli. Invece col nome l’Ombra della Notte, una sorta di ibrido non si sa se voluto o casuale tra l’Ombra che Cammina e Aquila della Notte che dà l’immagine di un personaggio meno spaventoso, tale coincidenza non c’è più. Le iniziali di Night Shadow sarebbero NS, quasi il nome di una sigaretta, magari nociva ma non molto d’effetto.
Insomma se il personaggio qui non si chiama Diabolik e non ha un soprannome legato alle due lettere, che senso ha chiamarlo DK? Non interessa a nessuno? È solo una convenzione? L’hanno già fatto con l’albo PK di Paperinik e quindi va bene? Basta chiamarlo in qualche modo, tanto un nome non ce l’ha? Lo spiegheranno così a editori e lettori stranieri che si chiederanno cosa significhi? Senza contare che negli USA un famoso DK esiste già. In effetti il nome ideale poteva essere Dark Knight. Peccato sia già stato preso da un altro…


DK2 - Il Cavaliere Oscuro Colpisce Ancora vol. 1, di Frank Miller (Play Press, 2002)


Il Grande Diabolik n. 1-2013 (Astorina)


DK – IO SO CHI NON SONO
IL GRANDE DIABOLIK n. 1 – 2013
Soggetto: Mario Gomboli
Sceneggiatura: Tito Faraci
Disegni: Giuseppe Palumbo
Formato: bonellide di 180 pag. a colori
Editore: Astorina
Data di uscita: 15 Aprile 2013
Prezzo: € 4,90


DK - Prima Stagione n. 1 (Astorina, 2015)
DK - Prima Stagione n. 2 (Astorina, 2015)

DK - Prima Stagione n. 3 (Astorina, 2016)


DK – PRIMA STAGIONE
Miniserie di 4 numeri
Soggetto: Mario Gomboli
Sceneggiatura: Tito Faraci
Disegni: Giuseppe Palumbo
Colori: Inventario e Enrico Pierpaoli
Copertine: Matteo Buffagni
Formato: comic book di 72 pag. a colori spillate
Editore: Astorina
Date di uscita: dal 1° Novembre 2015 al 1° Febbraio 2016
Prezzo: € 3,50 ad albo


Andrea Cantucci


N.B. Trovate i link agli altri "bonellidi" su Cronologie & Index!
P.S.  Il precedente intervento "bonellide" su Diabolik era del 1° maggio 2014...

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