venerdì 28 settembre 2012

LA TERRA DEGLI EROI: OLTRE KEN PARKER (I PARTE 1977-1991)

di Giampiero Belardinelli


Ken Parker (il cui primo numero uscì nel giugno 1977, per tipi della Cepim di Sergio Bonelli) è certamente il personaggio più importante creato da Berardi e Milazzo nella loro carriera artistica. Senza ombra di dubbio il personaggio ha segnato una tappa fondamentale nel processo di rinnovamento del fumetto italiano: infatti non ci troviamo dinanzi a un eroe a tutto tondo, ma di fronte a un character pieno di dubbi e incertezze (in questo comunque era stato preceduto da un altro personaggio bonelliano, Mister No, l’antieroe creato da Nolitta); e anche il montaggio delle tavole, dotate di una sceneggiatura prettamente cinematografica e priva di didascalie, si distaccava notevolmente dai modelli utilizzati dagli autori in quel periodo.

 
Copertina di Ken Parker n. 1, giugno 1977. Disegno di Milazzo (c) Berardi & Milazzo, 1977-2012

In questa sede, invece, analizzeremo quei racconti oltre Ken Parker (naturalmente editi dalla Bonelli) che i due autori – in questi lavori all’opera in maniera separata – hanno realizzato prima per la Collana Rodeo (dove appaiono due racconti firmati da Berardi) e in seguito per i personaggi creati da altri (Tex, Nick Raider – il poliziotto newyorkese è l’unico personaggio, tra quelli presi in esame, dove, al di fuori dell’ambito delle storie di Lungo Fucile, ritroviamo la firma di Milazzo – e Il Piccolo Ranger). I racconti verranno commentati in perfetto ordine cronologico (nel primo capitolo le storie scritte da Berardi, nel secondo i lavori disegnati da Milazzo) e non in ordine di popolarità di un personaggio o di una collana.


Una poetica penna nel mondo dell’avventura: le storie scritte da Berardi

Nel giugno del 1977 viene pubblicato il racconto Terra Maledetta, 121° numero della Collana Rodeo, sceneggiato da Giancarlo Berardi (al debutto in casa Bonelli) e disegnato da Antonio Canale. 


Una delle locandine italiane di "Corvo Rosso non avrai il mio scalpo!", 1972

Si nota come la visione del film Corvo Rosso non avrai il mio scalpo (Jeremiah Johnson nella versione originale; pellicola del 1972 diretta da Sydney Pollack) abbia influenzato lo sceneggiatore anche nella costruzione della trama di Terra Maledetta (il film citato, tra l’altro, ha dato lo spunto per la nascita della saga di Lungo Fucile). La storia, ambientata nel 1766, racconta di un lungo viaggio nelle desolate terre del Grande Nord canadese, e vede protagonista Adam Wilson, un esperto minerario proveniente dall’Inghilterra alla ricerca del Fiume Giallo (e del padre), un corso d’acqua leggendario che, come sostengono in molti nella regione, pare sia ricco d’oro, mentre in realtà l’unica ricchezza è costituita da inutile pirite (sottile e beffarda metafora sulla cupidigia umana). Una classica storia d’avventura che offre a Berardi lo spunto per soffermarsi sulla difficile realtà delle terre di frontiere in quel periodo. Vediamo, ad esempio, tutti gli espedienti a cui ricorrono gli uomini della spedizione guidata da Wilson per sopravvivere alla violenza della natura, la quale, pur se dura, si dimostra sempre meno infida della violenza, spesso gratuita, degli uomini. Nel lasso di tempo in cui si dilunga la spedizione, Berardi ci mostra inoltre ritratti di grandissima umanità: il sacrificio di Jacques (uno dei compagni d’avventura di Adam), che permette al Nostro di salvarsi da una situazione senza scampo; l’amore che nasce tra Maruah (un indiana Chippewa) e Mitaua (il nome indiano di Adam Wilson), un uomo privo di pregiudizi razziali (una figura con una concezione della vita simile a quella di Ken Parker). Infine, senza filtri di sorta, l’autore non disdegna di mostrarci situazioni di estrema crudezza, come, ad esempio, nelle sequenze in cui i Chippewa massacrano spietatamente gli Eskimo (loro rivali da sempre), secondo le regole della lotta per la sopravvivenza con cui, da millenni, si confrontano gli uomini e gli animali nelle terre ancora selvagge (non vengono risparmiati né donne né bambini). Inorridito, Wilson si scaglia contro il suo amico Matonabbee (il capo dei Chippewa e fratello dell’indiana amata dal Nostro) chiedendogli spiegazioni: "Forse i bianchi ne hanno di migliori... – risponde l’indiano – Ma allora perché hanno sterminato i Wampanoags e i Narragansets e i Massachussetts!? Il mio popolo uccide solo per mangiare e per difendersi; il tuo uccide spesso per il gusto di farlo!".





La copertina del n. 121 della Collana Rodeo, disegnata da Antonio Canale. Giugno 1977 (c) Sergio Bonelli Editore


 
Pochi mesi dopo, nell’ottobre del 1977, Berardi debutta sulle pagine del Piccolo Ranger (Collana Cow-Boy) con una storia dipanata in tre albi, La vedova nera (n. 167), Infamia! (n. 168) e L’ultimo atto (n. 169). Si tratta indubbiamente uno dei racconti più interessanti della serie (creata da Andrea Lavezzolo nel lontano 1958), in cui l’autore genovese introduce delle gustose novità sul tema di un classico western carcerario. Accompagnato dai non accreditati disegni della Buffolente, Berardi sottolinea la sincera amicizia che Kit Teller nutre verso i pellerossa, defraudati delle loro terre dal governo degli Stati Uniti, aiutandoli disinteressatamente e senza secondi fini, al contrario, come la Storia ci insegna, dei trafficanti bianchi. Berardi tra l’altro, da esperto conoscitore delle regole del giallo, costruisce un racconto dove tutti gli indizi portano verso una plausibile verità, per poi divertirsi a ribaltare il tutto nel finale: le apparenze portavano a escludere che il responsabile delle evasioni dei detenuti (naturalmente forniti di bottino nascosto da poter recuperare) dal Penitenziario di Yuma fosse addirittura il direttore del Carcere Sam Clark. Quest’ultimo, secondo una sensibilità peculiarmente berardiana, viene ritratto anche nei momenti di quotidianità e negli affetti familiari, una caratterizzazione che lo umanizza e lo allontana dal ruolo di cattivo arido e spietato. Inoltre il camuffamento dell’identità, come vedremo anche nel magistrale capolavoro kenparkeriano Diritto e rovescio (n. 36), rende unico questo episodio del Piccolo Ranger, in cui alcuni personaggi, per varie motivazioni, ricorrono a una girandola di travestimenti che danno al racconto – come puntualizza Gianni Brunoro – "sorprendenti e godibili variazioni sul tema" (cfr. il volumetto allegato allo Speciale Il Piccolo Ranger pubblicato nel 1992).



Copertina del Piccolo Ranger n. 167, disegno di Corteggi, ottobre 1977 (c) Sergio Bonelli Editore



Tra l’altro, ponendo l’attenzione sulla vita all’interno del Penitenziario, dove Kit si è fatto rinchiudere per scoprire chi favorisce le evasioni, Berardi sottolinea la durezza dei secondini, le meschinità a cui ricorrono per taglieggiare i detenuti, la violenza che questi ultimi subiscono e al tempo stesso riversano nei confronti dei più deboli. Tra tutto ciò, poi, l’autore non dimentica di inserire momenti intimisti, come ad esempio l’addio di Claretta a Kit: "Devi cercare di dimenticarmi e trovare un bravo ragazzo che..."; "Sta’ zitto! Lo sai benissimo che non potrei mai!" afferma più decisa che mai Claretta; "Devi farlo! Quando uscirò, io sarò un vecchio...", ribadisce infine con commovente decisione Kit. Inoltre, il vincolo di amicizia che lega Frankie Bellevan al Nostro, ancor più rafforzato dalle tristi vicissitudini giudiziarie. E infine la commovente generosità del detenuto Smiley, un uomo migliore dei suoi carcerieri e di alcuni presunti, rispettabili personaggi, come appunto il direttore del Penitenziario. Dopo il racconto del Piccolo Ranger, troviamo un altro episodio scritto da Berardi nel 131° numero della Collana Rodeo, intitolato Wyatt Doyle (aprile 1978), ambientato nel Kansas del 1873. Nel racconto assistiamo alle peripezie di Wyatt Doyle, cacciatore di taglie per necessità (accompagnato nella sua caccia da un giovane che caratterialmente ricorda molto il figlio), a cui il disegnatore Grugef (nome d’arte di Giancarlo Forgiarini, un autore dal tratto indubbiamente insolito rispetto ai tipici canoni bonelliani del periodo) ha dato il volto dell’attore Burt Lancaster. Nel lungo flashback Berardi racconta il dramma del protagonista (un uomo dalla poetica umanità), costretto dalle avverse circostanze a entrare nel circolo vizioso e crudele dell’usura (per mano di questi ha perso il figlio, la moglie e la sua terra). Doyle esce da quella tremenda esperienza con una visione della vita più cinica e disincantata (lo sceneggiatore è bravissimo a sottolinearne lo stato d’animo), ma senza perdere mai quel barlume di umana speranza. Questo racconto della Collana Rodeo, come in molti di quelli kenparkeriani, si svolge in gran parte in un’ambientazione invernale con tanto di maestosi e suggestivi paesaggi coperti di neve, dove, oltre ai pericoli creati dagli uomini, le maggiori difficoltà arrivano dalla furia degli elementi (il pericolo delle valanghe) e dagli animali selvaggi (particolarmente spettacolare e durissima la lotta dei due protagonisti con un Grizzly).


La copertina di Nick Raider n. 18 disegnata da Casertano, novembre 1989 (c) Sergio Bonelli Editore


 
Passano undici anni prima di trovare una nuova collaborazione di Berardi per un’altra testata bonelliana. In questo lasso di tempo, dal 1978 al 1989, molte cose sono cambiate dalle parti di via Buonarroti: la casa editrice ha raccolto i propri marchi sotto il nominativo attuale di SBE; nel frattempo sono stati pubblicati nuovi personaggi che si sono imposti all’attenzione del pubblico (escludiamo quelli che purtroppo, nei primi anni Ottanta, hanno chiuso anzitempo le pubblicazioni), quali Martin Mystère, Dylan Dog e Nick Raider. E proprio per quest’ultimo personaggio l’autore scrive una storia, Mosaico per un delitto (n. 18, novembre 1989), considerata da diversi osservatori tra le migliori della serie ideata da Claudio Nizzi. Il giallo elaborato da Berardi è inappuntabile e, quando si arriva alla fine, niente può dirsi essere stato lasciato al caso. Ma ciò che eleva questo racconto è la straordinaria capacità dell’autore di mostrarci uno spaccato di varia umanità, di conflitti sociali e momenti di ordinaria follia. Una ragazzina di diciassette anni (Elisa) viene trovata morta al Central Park: da lì prendono il via una serie di interrogatori che offrono all’autore l’occasione per mostrarci i differenti punti di vista con cui i conoscenti giudicavano il comportamento della vittima. Chi la definisce una poco di buono, abituata a frequentare delle cattive compagnie; chi ne sottolinea la sua propensione di essere una mangiatrice di uomini ("Insomma... Siamo tra uomini, no?... – afferma il fruttivendolo – Minigonne vertiginose, allusioni maliziose... tutto il repertorio completo!"); chi, come il prete della parrocchia, la definisce una ragazza con dei problemi, ma comunque devota e generosa con i reietti della società. Infine, dopo che le indagini avevano portato in tutt’altra direzione, ecco la sorpresa: la madre adottiva, un’isterica, meschina donna frustrata, ossessionata dalla bellezza in fiore della figlia (convinta che le rubasse il suo nuovo e giovane compagno), è l’insospettabile colpevole dell’omicidio. Nel finale scopriamo come la vittima sia in realtà illibata e il racconto chiude il sipario con una beffarda e impietosa metafora sulle fobie sessuali che ancora oggi affliggono ancora le società evolute economicamente. Per Berardi, insomma, la trama è anche un’occasione per affondare il bisturi nella realtà quotidiana. In questo caso, ci porta alla nostra attenzione la squallida mentalità di certa gente, disposta a prestare fede a qualsiasi diceria, alle menzogne più abbiette, pur di dimenticare la propria condizione di inadeguatezza e di insoddisfazione.



La copertina, firmata Galep, di "Oklahoma", il primo Maxi Tex, dicembre 1991 (c) Sergio Bonelli Editore



Siamo nel dicembre del ’91 e in tutte le edicole esce un albo di Tex nel classico formato bonelliano (intitolato Oklahoma!), ma con un maggior numero di pagine, ben 348, un volume insolito, che Tiziano Sclavi ha battezzato con il termine di MiniTexone, scritto non da Nizzi o da Nolitta (allora gli unici sceneggiatori – soprattutto Nizzi – a essere impegnati con il personaggio di Gianluigi Bonelli) ma bensì da Giancarlo Berardi. I disegni sono del veterano Guglielmo Letteri. Con il suo segno morbido, classico, introspettivo, si rivela adattissimo a valorizzare la narrazione corale, distesa, intimista di Berardi, segnalandosi in pratica come l’ideale trait d’union tra le innovazioni berardiane e l’immagine grintosa e dinamica del personaggio datagli da Gianluigi Bonelli. Un impegno da far tremare i polsi quello di sceneggiare una storia di Tex, che però Berardi assolve con puntualità, accostandosi al personaggio di Bonelli padre con l’umiltà di chi sa di affrontare un mito storico del fumetto italiano. Il modo di narrare di Berardi è in effetti lontanissimo da quello di Gianluigi Bonelli, ma comunque le due differenti correnti di pensiero non sono certo inconciliabili, a dimostrazione che i preconcetti a priori (non solo nel mondo della fiction) non dovrebbero più esistere. L’autore, secondo me, è riuscito in un compito che molti ritenevano davvero impossibile.


1889: una rara e storica fotografia della Oklahoma Land Rush.



La sceneggiatura costruita dall’autore genovese è basata su un fatto storico, la Oklahoma Land Rush, ovvero una lunga corsa, effettuata con carri o qualsiasi altro mezzo, che i coloni arrivati nell’ex territorio indiano intrapresero per appropriarsi i migliori lotti di terreno fertile dove poter iniziare una nuova esistenza. L’autore in questo tipo di contesto dà il meglio di sé, mostrandoci le vicissitudini dei Paxton e di molte altre famiglie in competizione tra di loro, in una disperata lotta tra poveri. Berardi ritrae i personaggi in tutte le sfaccettature caratteriali: le debolezze, le piccole manie, i sentimenti. Ad esempio vediamo il nascere della simpatia amorosa tra la figlia dei Paxton e un mezzosangue, contrastato, almeno inizialmente, dal fratello della ragazza; poi il successivo affermarsi tra questi ultimi due, lento ma costante, del vincolo dell’amicizia e della solidarietà. Inoltre scorgiamo il dramma dei coloni nel tentativo di cercarsi un posto al sole, il duro impatto con la morte dei propri cari, il crollo delle speranze, ma anche la voglia di non arrendersi, di credere che le illuminate leggi della Costituzione Americana arrivino anche nelle selvagge terre di Frontiera. Ma se la realtà dell’Ovest è spesso legata alla legge del più forte, nella finzione uomini come Tex e Carson non accettano questa realtà, e si battono con durezza per l’affermazione della giustizia, anche andando contro i potenti che hanno costruito le loro ricchezze "sulle lacrime e il sangue della povera gente".


Una delle locandine americane del film "Far and away" ("Cuori ribelli"), 1992. Il finale è ambientato durante l'assegnazione di terre in Oklahoma nel 1889.



È lo spirito di molte delle migliori storie texiane scritte da Gianluigi Bonelli, che Berardi ha dimostrato di aver compreso e utilizzato alla perfezione. L’autore costruisce quindi un racconto nel suo inconfondibile stile narrativo, non dimenticandosi però quegli elementi peculiari delle trame architettate da Bonelli padre. L’interpretazione berardiana di fa di Tex è perfettamente canonica: il personaggio mantiene un eloquio molto vivace, sprezzante con i "criminali in guanti bianchi", mai comunque forzatamente arrogante. Inoltre il personaggio, pur in un contesto corale, resta in fondo il protagonista assoluto, al punto da risultare, come vuole la tradizione, il deus ex machina della situazione: le sue indagini svelano l’intrigo, proteggono i più deboli dall’arroganza dei grandi e piccoli criminali, portando infine la giustizia e la speranza a chi si era affidato alla sua opera e alla sua pistola. Il ruolo che Carson svolge nella storia è quello del gregario ma, pur non emergendo come il personaggio epico interpretato da Gianluigi Bonelli e da Mauro Boselli (cfr., tra gli altri, Il passato di Carson, Tex nn. 407/409), è comunque utilizzato positivamente. Le punzecchiature che si scambiano i due pard, inoltre, sono di una raffinata e garbata ironia decisamente nelle corde dello sceneggiatore: "Restava solo il petrolio, ti pare?", dice Tex a pagina 339; "Elementare, direi!", risponde Carson; "Mi vergogno perfino di averti fatto la domanda!" aggiunge ancora l’anziano pard; "È perché non ci hai riflettuto!" risponde infine Tex. In conclusione, l’opera texiana di Berardi è, a mio parere, un capolavoro assoluto da collocarsi senz’altro accanto alle storie scritte dall’indimenticato Gianluigi Bonelli.


Un pennello al servizio del giallo: i racconti illustrati da Milazzo 



La copertina di Nick Raider n. 22, disegnata da Casertano, marzo 1990 (c) Sergio Bonelli Editore


Dalle distese coperte di neve, caratteristiche della saga di Ken Parker, alle strade intasate di traffico e criminali della Grande Mela, l’ambientazione base di Nick Raider, il passo è lungo, ma Milazzo lo compie con la naturalezza e la disinvoltura che deriva dalla sua notevole esperienza artistica. Il disegnatore collabora appunto a Nick Raider, di cui illustra due episodi, Omicidio al Central Park (n. 5, ottobre 1988) e Jimmy e Juanita (n. 22, marzo 1990), entrambi scritti dal creatore del personaggio Claudio Nizzi. In questi due episodi, l’autore sfoggia una serie di soluzioni grafiche insolite, come, ad esempio, il filo contorto del telefono con cui parlano Nick e il tenente Art, i quali appaiono, malgrado la distanza, l’uno di fronte all’altro (Omicidio al Central Park, p. 54), "come nei film americani – scrive Francesco Manetti – degli anni ’30 e ’40". Nelle sue tavole, realizzate con pennellate molto fluide che delineano immagini volutamente deformi, si scorgono dei volumi dai profili incerti che si confondono nell’oscurità della notte. Gli inseguimenti automobilisti, inoltre, mostrano la tendenza di Milazzo ad accentuare il movimento dei mezzi, con "minuziosi accorgimenti grafici – scrive acutamente ancora Manetti – per i rumori, che vengono tratteggiati curvi, come a seguire la macchina in corsa". Le luci, i grattacieli, i luoghi caratteristici, i quartieri malfamati (popolati da un’umanità sfaccettata e varia: prostitute, piccoli criminali, persone disperatamente sole), vengono esaltati dal potente bianco e nero dell’autore, che, a secondo delle esigenze narrative e ambientali, cambia le gradazioni chiaroscurali con risultati scenografici degni dei migliori noir del cinema hollywoodiano. L’autore, col suo segno rapido ed essenziale, sa delineare sequenze mute talmente comunicative da non aver bisogno di un supporto dialogato. Il segno di Milazzo dona a Nick un aspetto maggiormente umano (che ne ammorbidisce la consueta durezza), ma al tempo stesso ne accentua la già notevole dinamicità. La maschera facciale del Marvin milazziano lo avvicina moltissimo ai personaggi della Rivista o degli spettacoli circensi (il personaggio viene ritratto spesso con espressioni da clown). Con l’approfondimento della ancora acerba personalità di Jimmy, Milazzo può sfogare una delle sue doti migliori: la riconosciuta profondità psicologica che sa donare ai suoi personaggi. Il timidissimo e introverso Jimmy Garnet, nel racconto che porta anche il suo nome, oltre alle sue solite mansioni di archivista del Distretto Centrale, viene mostrato,grazie all’ottima sceneggiatura di Nizzi, insolitamente anche nei momenti di attività sessuale: lo vediamo infatti tra le braccia della bella e sfortunata Juanita, compagna della sua prima volta. Queste sequenze trasmettono, oltre ad un’insistente sensazione di malinconia, una travolgente e sensuale carica erotica; l’autore, tra l’altro, dipingendo scene di sesso, come ha già dimostrato in molte occasioni nel suo Ken Parker, dimostra di non sfigurare affatto con i lavori illustrati dai migliori specialisti del genere erotico.



Berardi & Milazzo con quella sagoma di Ken Parker!

In Jimmy e Juanita, inoltre, emerge prepotentemente la coprotagonista della storia, Juanita, messa in risalto dal pennello di Milazzo sia nelle sue inquietudini (derivate dal dramma della povertà) sia negli aspetti gioiosi e positivi (l’amore sincero che nutre per Jimmy), conferendole lo stesso sapore delle donne perdute splendidamente immortalate, insieme a Berardi, in molte storie di Ken Parker.

Giampiero Belardinelli 

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